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QT n. 3, 10 febbraio 2007

La congiura del silenzio

Tre iniziative in occasione della Giornata della memoria: significative ma disertate...

Quest’anno, la settima celebrazione della giornata della memoria, che come si ricorda è stata istituita in Italia il 27 gennaio 2000, è sfuggita, salvo nei discorsi dei politici, alla frequente retorica, per merito di almeno tre iniziative.

Yitzhak Katzenelson

La prima, dell’archivio storico “Città di Bolzano”, è la ricerca avviata sulla figura dell’altoatesino Lucillo Merci, candidato al riconoscimento di “Giusto fra le nazioni” da parte del Museo di Yad Vashem di Gerusalemme. Quest’ultimo è in possesso fin dal 1983 del diario di Merci, un maestro e ispettore scolastico molto conosciuto nel mondo della scuola in Sudtirolo, ma di cui a livello locale non si conosceva affatto l’attività a favore degli ebrei di Salonicco. Ma andiamo con ordine.

Come ha raccontato Carla Giacomozzi nella presentazione avvenuta il 25 gennaio a Bolzano, leggendo anche ampi brani dal diario, Merci, nato a Riva del Garda, insegnò a Bolzano e studiò verso la fine degli anni Trenta all’Orientale di Napoli, laureandosi in tedesco. Mandato sul fronte francese e poi albanese, finì poi a Salonicco, nella Grecia occupata, fra il 1941 e il 1943, a nord dai tedeschi, mentre a sud, con Atene, dagli italiani. A Salonicco, nel nord, viveva una numerosa colonia italiana, e quindi vi era un consolato che fu retto dai consoli Guelfo Zamboni e Giuseppe Castruccio.

Dal 4 ottobre ‘42 Merci è interprete italiano-tedesco. Nel febbraio ‘43 a Salonicco si trova Dieter Wisliceny, raggiunto nel maggio successivo da Alois Brunner. Entrambi sono esperti di concentrazione e deportazione di ebrei, e hanno ordini speciali di Himmler. Gli ebrei di Salonicco sono 56.000 appartenenti a diverse nazionalità: greci, turchi, argentini, spagnoli, italiani. Essi sono concentrati nel ghetto di Baron Hirsch, che prende il nome da un filantropo ebreo che fece costruire questo quartiere di Salonicco. Dei 56.000, ne verranno deportati 50.000 e 43.000 non torneranno.

Il consolato italiano cerca di salvare gli ebrei italiani, difendendo con orgoglio la propria competenza. Ma non solo. Nonostante i progressivi cedimenti di Mussolini alle richieste di adeguamento della politica razziale, la struttura diplomatica non segue compatta le istruzioni che vengono da Roma, presa da scrupoli di fronte alla prospettiva dello sterminio. Il Console rilasciò molti documenti falsi, che attestavano la cittadinanza italiana di persone che non lo erano affatto. Merci li doveva portare al comando tedesco. Trovò in Max Merten, un giudice berlinese, un silenzioso complice. Furono salvati 323 ebrei italiani e 113 altri. Pochi rispetto ai 43.000 annientati nei lager, ma molti se si pensi al principio ebraico “chi salva una vita, salva il mondo intero”. Guelfo Zamboni è stato riconosciuto, dopo molte attestazioni fra cui quella dei sopravvissuti della comunità ebraica di Salonicco nel 1946, come Giusto delle nazioni e nel giardino dei Giusti di Gerusalemme è stato piantato un albero che porta il suo nome.

Le notizie di come si svolse tutto ciò si trovano nelle annotazioni di Lucillo Merci, trascritte nel 1983 dai suoi appunti del 1943 per essere poi consegnati al Museo di Yad Vashem. Il tono è asciutto, si racconta del dramma dei matrimoni misti, dell’affollarsi di tanti disperati intorno alla sede del consolato, alla ricerca di aiuto, degli acquisti dei biglietti ferroviari per Atene comperati per persone che non potevano farlo e di minacce della Gestapo. Solo in qualche punto si lascia andare: “Siamo vicini agli ebrei con tutto il cuore” scrive di fronte alla disperazione di chi è consapevole che le deportazioni finiscono nei campi di sterminio, interessante conferma che tutti sapevano che cosa stava accadendo ben prima che gli americani entrassero ad Auschwitz.

Ritornato a Bolzano nel dicembre del 1943, Merci si informò sul destino di alcuni suoi “protetti”. Di una coppia venne a sapere che furono presi e annegati nel lago di Como. La fuga dalla Grecia non li aveva salvati. Ma ora si cercano i sopravvissuti o le testimonianze del comportamento coraggioso e umano dell’insegnante bolzanino. Su di lui, nel 1987 Joseph Rochlitz, un regista americano girò un documentario dal titolo “The righteous Friend”, Il nemico fraterno.

Secondo. Riccardo Gadotti, attore trentino, è stato protagonista della lettura pubblica del “Canto del popolo ebraico massacrato” (Edizioni Giuntina di Firenze, nei Remainders) di Yitzhak Katzenelson, un testo scritto dall’insegnante e poeta polacco poco prima di essere deportato ad Auschwitz e ucciso nel 1944. Il testo era stato nascosto e ritrovato da una deportata sopravvissuta nel campo di concentramento di Vittel in Francia, dove Katzenelson era arrivato dopo una lunga permanenza nel ghetto di Varsavia, e l’uccisione della famiglia a Treblinka. Quasi impazzito, si riprese e ricominciò a scrivere questo testo famoso, pubblicato in tutte le lingue nel dopoguerra. Di questo lavoro dello scrittore di opere per l’infanzia, Primo Levi scrisse nella prefazione: “Davanti al cantare di Yitzhak Katzenelson ogni lettore può arrestarsi turbato e reverente. Non è paragonabile ad alcuna altra opera nella storia di tutte le letterature: è la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del destino lontano, ma di quello imminente… Al di sopra dell’orrore che ogni volta ci coglie davanti a queste testimonianze pur note, non possiamo reprimere un moto di stupore ammirato per la purezza e la forza di questa voce. E’ voce di un universo culturale ignoto in Italia da sempre e oggi scomparso: la voce di un popolo che piange se stesso”.

Terzo. “Pakt des Schweigens” (congiura del silenzio) è il titolo del film di Carlos Echeverrìa che racconta la seconda vita di Eric Priebke, uno dei massacratori delle Fosse Ardeatine, che dopo un soggiorno di due anni a Vipiteno, si rifugiò con l’aiuto del Vaticano a Bariloche, in Argentina. Qui è divenuto un membro stimato e riverito dalla numerosa e benestante comunità tedesca, cresciuta e rafforzata dall’arrivo nel dopoguerra di tanti profughi criminali nazisti.

Qui sorgeva il campo di sterminio di Treblinka

Echeverrìa è di Bariloche e nel film racconta la sorpresa generale quando Priebke fu individuato dalla giustizia italiana ed estradato per poter apparire al processo di Roma; descrive l’atteggiamento omertoso e complice della comunità, e scava nella propria infanzia, parlando con i suoi compagni e amici, per disegnare i contorni di una realtà inquietante. Nel paese si parla delle grandi feste di ogni 20 aprile, compleanno di Hitler; insegnanti raggiunti in Germania raccontano di come furono espulsi dalla scuola perché entrati in conflitto con l’ideologia dei dirigenti, che pretendevano che si negasse lo sterminio degli ebrei e che si crescessero le nuove generazioni in una prospettiva di aspettativa di rivincita per il nazismo sconfitto; scopre nella propria esperienza passata e in quella di altri giovani della sua generazione il sottile ma forte disprezzo dei tedeschi per i mistilingui, l’educazione dei giovani agli ideali razzisti. Echeverria denuncia la complicità degli altri tedeschi della comunità con i criminali, e dei racconti a bassa voce degli avvenimenti al tempo del Reich.

Introducendo la proiezione, Günther Pallaver ha messo l’accento sul ruolo del Sudtirolo nel dopoguerra, di cui si parla anche nel documentario. Funzionò come territorio di accoglienza per tanti criminali nazisti. Priebke con famiglia passò due anni tranquillo a Vipiteno, ma qui soggiornarono ben protetti anche Mengele e tanti altri. La chiesa, e specialmente il vicario del vescovo Pompanin, già fanatico sostenitore dell’opzione per il Reich, e una rete di conventi, fra cui quello dei Francescani di Bolzano, furono fondamentali dal punto di vista logistico per realizzare la politica vaticana di aiuto alla fuga di tanti criminali.

Nella sala del Filmclub, la sera della prima, c’erano meno di una decina di persone. Come alla presentazione della ricerca su Lucillo Merci, c’erano solo il sindaco e l’assessore alla cultura, ma nessun esponente politico della maggioranza di lingua tedesca. E’ ancora un segno della difficoltà sudtirolese di confrontarsi con gli aspetti ambigui del passato e dell’effetto deleterio del bipolarismo etnico che giustifica il rifiuto di ogni gruppo linguistico a guardare nel proprio passato. Eppure queste iniziative e le ricerche di giovani storici cominciano a scalfire una realtà di congiura del silenzio che dura, come a Bariloche, da cinquant’anni. Per gli ottimisti, e per dirla con Hans Magnus Enzensberger a proposito dei progressi della democrazia, speriamo che viga “la legge della crescente incidenza del rimanente. Quanto più negativo scompare dalla realtà, tanto più irritante diventa il negativo residuale, proprio perché diminuisce”.