Memorie controverse
Giorno della memoria: i ricordi deformati e contrastanti di italiani e tedeschi.
Il giorno della memoria ha un sapore strano in Sudtirolo. Alle cerimonie pubbliche organizzate solo dal comune di Bolzano, partecipano quasi solo persone di lingua italiana. Da due anni, con il nuovo sindaco, la visita ai luoghi delle vittime del nazionalsocialismo si fa stranamente di sabato, e quindi gli ebrei sono esclusi. Alle proteste della presidente della comunità, il sindaco ha risposto seccamente che "alle cerimonie ci va chi vuole".
Dopo la guerra gli abitanti dei due gruppi linguistici della provincia di Bolzano si misero dalla parte delle vittime e si diedero l’auto-assoluzione per ogni ingiustizia o crimine perpetrato direttamente o guardato con benevolenza o indifferenza. Su questa base di mancata epurazione prima e mancata riflessione poi, si fonda la stranezza con cui fascismo e nazismo sono sentiti.
Gli italiani, terrorizzati nel periodo di occupazione dell’esercito tedesco fra il 1943 e il 1945, sono tutti antinazisti, ma guardano al periodo fascista come a un tempo non malvagio; mentre i sudtirolesi di lingua tedesca, oppressi per vent’anni dalle politiche di italianizzazione fasciste, sono antifascisti, ma ricordano il periodo nazista come quello della liberazione. Non tutti però, perché il nazismo, in 18 mesi di Zona di operazione delle Prealpi, oltre a deportare e sterminare tutti gli ebrei, fece quasi duecento vittime fra i sudtirolesi e si manifestò con una crudeltà che almeno in questa provincia era rimasta sconosciuta nel ventennio.
Franz Thaler, renitente alla leva dell’esercito del Reich, deportato a Dachau, ha scritto vent’anni fa un libro sulla sua vicenda, e soprattutto sulle tristi esperienze al ritorno, quando nella ricompattazione etnica, ritenuta necessaria per lottare contro lo Stato come minoranza, vittime e carnefici furono spinti a unirsi senza che vi fosse né riconoscimento né giustizia.
Solo pochi anni fa si è tenuto il processo a Mischa Seifert, l’aguzzino del lager di Bolzano, un condannato per stupro messo a fare il carceriere, che sfogò liberamente il suo sadismo contro donne anziane, giovani incinte, ragazzini indifesi, massacrando e strangolando con le proprie mani decine di internati.
Mentre l’opinione pubblica fu sconvolta dalle testimonianze, il processo fu accompagnato in Sudtirolo anche da una specie di malintesa simpatia umana verso un "povero vecchio".
Oggi finalmente il presidente della giunta provinciale dichiara che i crimini contro l’umanità non si prescrivono ed è giusto che Seifert sia estradato dal Canada dove è vissuto. E’ lo stesso presidente che non ha mai voluto visitare la sinagoga di Merano e il museo annesso e in più di un’occasione ha affermato che "non solo gli ebrei, ma anche i sudtirolesi hanno sofferto", anche in risposta alla richiesta della "Società per i popoli minacciati" di chiedere scusa alla comunità ebraica di Merano, cancellata nel 1943 per delazione diretta degli abitanti della cittadina del Passirio.
Mischa Seifert è stato estradato pochi giorni fa. E’ un vecchio tranquillo, benestante, soddisfatto della sua vita, che a differenza di quella delle sue vittime, è durata a lungo e trascorsa serenamente. Ora potrà lasciare il carcere di Santa Maria Capua a Vetere se una famiglia lo prenderà in carico.
Meno convinte che altrove sono state anche le reazioni sudtirolesi nei riguardi del recente film documentario del salisburghese Günther Schwaiger, che ha ottenuto un’enorme eco al Festival di Locarno con il racconto della vita di un 84enne nazista originario di Malles in Val Venosta. Paul Maria Hafner vive felicemente in Spagna, ritira quattro pensioni di cui una locale e ancora oggi davanti alle telecamere nega l’Olocausto e inneggia a Hitler.
Non da molto sono apparsi studi sulla storia delle persone con diversa abilità o malate di mente, deportate e uccise, mentre l’episodio di via Rasella, di cui furono vittime i membri sudtirolesi del battaglione di polizia "Bozen", dà adito alla teoria della doppia strage, nella ingiusta parificazione delle vittime dell’attentato partigiano con la vendetta attuata dai tedeschi alle Fosse Ardeatine, dove peraltro proprio i sopravvissuti del battaglione rifiutarono di sparare.
In occasione del giorno della memoria una nuova storia è stata pubblicata dal piccolo giornale Tageszeitung. Racconta della vita e della morte di una donna giustiziata dai nazisti a Berlino-Plötzensee, dove venivano uccisi i nemici del regime. Originaria di Lienz nel Tirolo austriaco, Helene Delacher si era fidanzata negli anni ‘30 con un servo agricolo sudtirolese emigrato. Avevano messo su casa a Innsbruck e si erano convertiti. I Testimoni di Geova erano però invisi al regime perché pacifisti, e i due vennero condannati una prima volta nel giugno del 1940 per associazione sovversiva. A lui venne ritirato il permesso di vivere nel Terzo Reich, di cui ora l’Austria faceva parte, e dovette tornare a fare il pastore d’alta montagna in una zona vicina al Brennero. Fu qui che lo volle raggiungere Helene, portando con sé alcune copie del giornale della sua comunità, Wachtürme (Torri di guardia). Al confine del Brennero venne però fermata e arrestata per avere infranto le norme sulla diffusione di materiali stampati. Ci sentiva poco e durante il processo dette l’impressione di essere un po’ ritardata, ma l’accusa di essere un corriere venne aggravata dalla sua risposta recisamente negativa alla domanda del giudice se avrebbe accettato di lavorare in una fabbrica di munizioni. Rispose che "ciò si poneva in contrasto con il suo credo".
La mite contadina di maso e per breve tempo aiuto cuoca nell’ospedale di Hall, fu decapitata il 12 novembre 1943. Di lei rimangono, oltre agli atti del processo, una breve dolcissima e serena lettera al fidanzato, scritta poche ore prima dell’esecuzione della crudele sentenza. Helene Delacher venne riabilitata dal Tribunale di Vienna nel 1999. Il suo fidanzato Alois Hochrainer venne imprigionato nel 1944, quando rifiutò di prestare servizio nell’esercito tedesco. Sopravvisse alla prigionia e rimase fedele al suo credo. Solo oggi la storia diviene pubblica in provincia di Bolzano e contribuisce, a piccoli passi, a elaborare il lutto di un tempo che è riuscito a gettare la sua ombra fino ad oggi nei pregiudizi reciproci di tanti abitanti del Sudtirolo.