Adozioni: a che punto siamo?
I problemi vecchi e nuovi e le cifre del fenomeno in Trentino.
Si aspetta a lungo. Spesso per anni. Nel frattempo si fantastica sul colore dei suoi occhi e della sua pelle. S’immagina ogni piega della sua personalità. Si attende con il batticuore quel fatidico momento, che sembra non arrivare mai. Poi, all’improvviso, uno squillo di telefono annuncia l’imminente incontro con il pargolo tanto sognato. E quando il bimbo, venuto da lontano, plana nel nuovo nido, i genitori comunicano a sirene spiegate il felice evento.
Perché oggi un figlio adottivo è una realtà diffusa. Non è un’etichetta infamante da nascondere. Un segreto da custodire, zitti zitti, fra le mura domestiche. Tutta un’altra storia rispetto al passato, quando la coppia si vergognava a spifferare questa scelta e le debolezze della propria intimità, ovvero la sterilità. Insomma, sui genitori adottivi aleggiava il sospetto di un gesto di ripiego, fatto unicamente per compensare quel figlio mai nato.
Eppure, com’è noto, scegliere un modo “diverso” di essere genitori rimane una faccenda complicata. Vita privata e capacità dei futuri papà e mamme sono passate più volte al setaccio da uno stuolo di esperti per ottenere l’agognata idoneità.
L’attesa è condita da lungaggini burocratiche e intoppi legali che provocano scoramento anche nel più motivato degli aspiranti genitori. E non sempre si arriva al felice epilogo, perché per ogni bimbo che aspetta di essere adottato vi sono oltre dieci coppie pronte ad accoglierlo a braccia aperte. I sogni s’infrangono soprattutto per chi chiede di adottare un pupo italiano, perché le possibilità si riducono al lumicino.
In Trentino, negli anni 2004-2005, sono ben 477 le domande di adozione nazionale e 118 quelle internazionali. Ma sono solo sette i bambini italiani che hanno trovato una nuova famiglia, contro i 77 stranieri. Quest’ultimi provengono soprattutto dai paesi dell’est, come la Federazione Russa, la Lituania o la Bielorussia. Altre frequentate mete dei viaggi adottivi sono poi i paesi sudamericani, con Bolivia e Colombia in testa.
L’età dei bimbi è uno scoglio che spaventa assai. I cuccioli, si sa, seducono alla grande. Si preferisce adottare quelli nella prima infanzia, cioè con poca storia alle spalle (vedi grafici). Perché il fardello d’esperienze di abbandono con conseguenti traumi e ferite, che spesso un figlio grandicello si porta con sé, mette a dura prova i genitori nuovi di zecca. Servono antenne sensibili per entrare in sintonia con un bimbo catapultato all’improvviso in un nuovo mondo. Per ricucire i suoi strappi, la sua storia presente e passata. E, soprattutto, serve la chiamata in campo di tutta la comunità allargata, che gioca un certo peso nell’integrazione di un figlio adottivo.
Qui vogliamo approfondire gli aspetti psicologici e sociali dell’adozione, con uno sguardo agli ultimi mutamenti legislativi. Ne abbiamo discusso con alcuni esperti in materia: la dott.ssa Carla Forcolin, autrice d’interessanti saggi sulle difficoltà dell’adottare e presidente dell’associazione di genitori adottivi “La gabbianella” di Venezia, la psicoterapeuta Maddalena Boccagni, ex giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Trento, infine l’avvocato Paola Cozza, responsabile dell’associazione Amici dei Bambini di Bolzano.
L’adozione è una scelta d’amore che non ha solo dei costi in termini psicologici, ma anche economici. Oggi per poter adottare un bimbo straniero la coppia si rivolge agli enti autorizzati e le cifre richieste possono superare i 10 mila euro. Insomma, un appannaggio dei ceti medio-alti. Dove vanno a finire tutti questi rivoli di denaro?
Cozza: “Le associazioni autorizzate hanno varie spese. Ci sono quelle per l’affitto e tutto il personale. Servono molt i intermediari sia in Italia sia all’estero, anche per il supporto legale e fiscale. Ogni paese poi richiede delle spese diverse. Può capitare di sentire casi d’adozioni costati 30 o 40 mila euro. Purtroppo c’è da dire che l’organo di vigilanza sugli enti, istituito 5 anni fa, che è la Commissione per le adozioni internazionali, non sempre svolge un adeguato ruolo di controllo.
Noi come associazione cerchiamo d’essere molto trasparenti rendendo pubbliche tutte le nostre spese di bilancio”.
Forcolin: “In passato l’adozione costava molto meno, poiché era “fai da te”, ovvero si ricorreva al missionario, oppure al parente che faceva cooperazione in un paese lontano. Per mettere la parola fine al traffico dei minori, la Convenzione dell’Aja del 1993, ratificata anche in Italia, ha sancito che possono essere adottati i bambini stranieri che non hanno famiglia o parenti. Naturalmente, si preferisce sempre l’adozione nel paese d’origine. Con la legge 149 del 2001, sono sorti degli enti autorizzati ad effettuare le adozioni internazionali. Essi spesso hanno il volto di organizzazioni cattoliche che già lavoravano nel campo.
Sono convinta che se le regioni potessero usufruire, accorpandosi, delle strutture pubbliche, senza il fardello delle spese di mantenimento delle varie sedi, gli oneri potrebbero essere molto ridimensionati. Attualmente l’unico ente pubblico che si occupa di adozione internazionale è la Regione Piemonte”.
E’ opinione comune che l’atmosfera che il bimbo trova in una famiglia accogliente, affettuosa e ricca, sia di gran lunga migliore rispetto alle privazioni subite nel paese d’origine. Eppure non tutte le adozioni filano lisce. Alcune naufragano nonostante le belle intenzioni e la volontà dei genitori adottivi. Come mai?
Boccagni: “Oltre un decennio fa l’adozione era vista come un fatto prettamente privato. Le adozioni nazionali erano più diffuse e c’era la tendenza a celare al bambino la sua storia. Ciò poteva compromettere la riuscita di un’adozione. Perché un minore che ha alle spalle un’esperienza d’abbandono ha la necessità di risanare continuamente questa ferita. Oggi nei gruppi di formazione i genitori adottivi trentini parlano del tema sterilità con maggior serenità.
Certo, non tutte le adozioni si concludono positivamente. Succede, ad esempio, che un bambino per la sua storia pregressa non abbia sviluppato una maturazione psicologica adeguata. In tal caso, gli risulta molto difficile gestire un rapporto privilegiato, emotivamente ed affettivamente intenso, con i nuovi genitori”.
Cozza: “Oggi nell’adozione si parte dal concetto di dare una famiglia ad un bambino e non viceversa, come in passato. Spesso però i genitori fanno prevalere il desiderio egoistico di soddisfare la propria genitorialità, senza un’adeguata consapevolezza delle proprie risorse nell’affrontare quest’evento. Così capita che se il bambino presenta problemi psicologici, comportamentali o di salute, la coppia si trovi impreparata a ciò. Il nodo da risolvere è la formazione di tutta la rete sociale, in primis gli insegnanti, che non possono interagire correttamente con il bimbo senza una conoscenza di ciò che significa un abbandono”.
La legge del 2001 ha introdotto alcune importanti novità: l’innalzamento dell’età per adottare ( la differenza d’età fra adottante e adottato è massimo di 45 anni e non inferiore ai 18), la possibilità di considerare il periodo di convivenza che precede il matrimonio ai fini adottivi (la coppia deve essere sposata da tre anni o avere un’accertata convivenza alle spalle). Eppure la norma italiana è poco elastica rispetto ad altri paesi europei. Come mai? E cos’è cambiato da quando è in vigore?
Cozza: “La legge 149 ha previsto che entro un periodo massimo di 6 mesi e 15 giorni si ottenga il decreto d’idoneità, ossia la certificazione del tribunale che la coppia è idonea all’adozione. I tempi d’attesa per le altre procedure non sono però cambiati. L’anno scorso il tempo medio per accogliere un bambino era di circa un anno e mezzo, questo inteso dall’arrivo dei documenti all’estero. Adesso, causa vari blocchi in alcuni paesi, l’attesa media può essere anche di 3 anni”.
Forcolin: “Ogni volta che si parla di adozione prevalgono nei vari partiti politici idee preconcette su come deve essere la famiglia. Specie le forze cattoliche, ad esempio, sono contrarie all’adozione ai single, perché si teme che essi possano essere omosessuali. Paradossalmente, però, la legge prevede che il single possa adottare i minori che nessuno vuole: quelli grandicelli, problematici o portatori di handicap, senza considerare i reali bisogni d’ assistenza di quest’ultimi. Insomma, una persona sola può occuparsi senza problemi di un bimbo con l’Aids oppure down, cieco, schizofrenico e via dicendo. Ma non si pensa al fatto che l’adottante potrebbe anche ammalarsi e allora che cosa succede?
La legge del 2001 aveva anche previsto di istituire una banca dati a livello nazionale, per far chiarezza sul numero di bambini adottabili e adulti disposti all’adozione. Nulla però è stato fatto. Oggi l’idoneità è data con un minor numero di colloqui, ma non credo che questo sia un bene, perché essa va davvero valutata con una grande professionalità”.
La stessa legge ha previsto che, entro il 2006, gli orfanotrofi debbano chiudere i battenti, sistemando i ragazzi non adottabili nelle cosiddette case famiglia. Ci sono ancora bimbi che vivono negli istituti?
Forcolin: “Gli orfanotrofi veri e propri sono stati smantellati, tranne alcuni in Sicilia ed in Campania. Attualmente, secondo i dati provenienti dall’Istituto degli Innocenti, sono circa ventimila i minori presenti nelle case-famiglia e nelle comunità alloggio. La maggioranza di essi non ha la dichiarazione di adottabilità, magari per legami non recisi con la famiglia d’origine. La Procura della Repubblica dovrebbe controllare ogni 6 mesi la situazione del minore in queste strutture, ma non sempre ciò avviene. Se ci fosse più attenzione si potrebbe favorire il loro ritorno in famiglia attraverso l’affido o con il volontariato. Certo, oggi queste forme di supporto sono più utilizzate. Tuttavia succede che il ragazzo viva un lungo stato di precarietà affettiva. Ad esempio, capita che dopo essere stato dichiarato adottabile, sia strappato ai genitori affidatari, con cui aveva intrecciato un buon legame affettivo, per darlo in adozione ad un’altra famiglia”.
Spesso si tende ad azzerare le differenze fra la famiglia naturale e quella adottiva. E’ positivo quest’aspetto?
Forcolin: “La legge sulla fecondazione assistita, come premessa, indirizza le coppie verso la scelta dell’adozione. Questo è terribile, perché l’adozione non deve essere utilizzata come un rimedio alla sterilità. Certo, essere genitori significa soprattutto crescere un bambino. Dunque, una genitorialità meno biologica e più affettiva può essere altrettanto valida. Non dobbiamo però dimenticare, che questa scelta d’amore, di cuore e non “di pancia”, parte da una gestazione completamente diversa da quella naturale ed è un aspetto non irrilevante. Non a caso ci sono famiglie con altri figli naturali che scelgono d’adottare”.