Giudici ladri di bambini?
Da un caso di cronaca, due riflessioni contrapposte su genitori, figli e servizi pubblici
È un’onda d’urto quella che in diverse regioni d’Italia, compreso il Trentino, sta portando a galla sulla spinta mediatica, innescata da consulenti di parte ed avvocati, possibili vizi di forma procedurali e metodologici che stanno alla base delle decisioni del Tribunale dei Minori in provvedimenti di allontanamento di un bambino dalla propria famiglia, o da un genitore, per affidarlo ai servizi sociali, ad altre famiglie in affido condiviso, o con procedura di adottabilità.
Il caso della neonata sottratta alla giovane mamma trentina, prendendo a pretesto un reddito insufficiente per il mantenimento della piccola, è finito in un tritacarne mediatico che prescinde da una miriade di altre motivazioni che hanno indotto il dottor Giuseppe Raspadori, psicologo, psicoterapeuta e consulente di parte, a denunciare nel luglio scorso in una conferenza stampa, un approccio in generale, a suo avviso, distorto da parte del Tribunale dei Minori, nella valutazione dei parametri che stanno a monte di queste decisioni.
Secondo Raspadori i casi di abusi e violenze conclamate ad opera dei genitori sui propri bambini riguardano un’assoluta minoranza, mentre sono numerosi i casi, dove a fronte di un provvedimento coatto, si agisce sulla base di un principio, la così detta “incapacità genitoriale” che sarebbe di per sé un non parametro. “Non esiste in nessun manuale di psicologia, o di psichiatria - afferma - la categoria, o la sindrome di incapacità genitoriale. So bene che la violenza non è soltanto fisica, ma quando ci addentriamo nel campo indefinito della psicologia, al di fuori cioè di certe fattispecie di reato, quando decidiamo di valutare modi, comportamenti, sentimenti, espressioni collegate al carattere, ai tratti di personalità, a stati d’animo, a tutto quell’insieme, spesso contraddittorio di ansie, paure, gelosie, sicurezze, aspettative, dipendenze, orgogli, che compongono la psiche umana, entriamo inevitabilmente nel campo della discrezionalità. La discrezionalità dei nostri valori, sentimenti, vissuti, visioni della vita e del nostro modo di amare e crescere i figli. Ma quando la discrezionalità delle valutazioni psicologiche si accompagna al potere di irrorare il massimo della pena, ossia la perdita di un figlio, che corrisponde per un genitore alla perdita di se stesso, il rischio di passare dalla discrezionalità all’arbitrio è enorme e foriero di danni e drammi molto maggiori di quelli che astrattamente si dichiara di voler evitare”.
E sono sempre la capacità, o incapacità, genitoriale l’oggetto ricorrente delle CTU (perizie predisposte da Tribunale), che secondo lo psicoterapeuta “si sviluppano ripetitivamente dai presupposti, ai passaggi diagnostici intermedi, fino alle conclusioni”, facendo pensare ad una sorta di prassi ordinaria, burocratizzata. In sostanza, il grande interrogativo, sostiene il perito di parte, riguarda il fatto se sia una prassi adeguata psicanalizzare i genitori per capire se un bambino vive uno stato di disagio. Non sarebbe più importante concentrarsi sul bambino, nelle relazioni con il suo mondo prevalente? Quale osservatorio migliore per valutare con gli insegnanti e gli operatori dei nidi, delle scuole materne ed elementari, lo sviluppo cognitivo, emotivo e del giudizio critico, la curiosità dei percorsi, l’elaborazione positiva, l’aggressività, la percezione di sé, il rispetto degli altri? Nel caso della neonata sottratta alla madre all’atto della nascita si è voluta gettare al macero, sacrificandola sull’altare dell’incapacità genitoriale, tutta una consolidata letteratura psico- pedagogica che vede nell’allattamento e nei primi contatti simbiotici tra madre e figlio il fondamento della salute e del futuro equilibrio psico- fisico e mentale del bambino.
Ma i casi riferiti i giorni scorsi in un incontro con la stampa tra avvocati, periti di parte e genitori protagonisti di queste drammatiche vicende familiari, raccontano di provvedimenti presi soltanto sulla base di perizie disposte dal Tribunale, senza contraddittorio, senza sentire gli avvocati, i genitori, i parenti, utilizzando metodi a quali è difficile dare una ratio in ambito psicologico.
Uno dei casi più eclatanti di questi mesi riguarda l’allontanamento dalla famiglia di un bimbo in età scolare effettuato durante l’orario scolastico, in presenza della forza pubblica, senza avvertire la madre e la nonna, sopraggiunte a scuola ad esecuzione in corso, tra pianti e scolari annichiliti. Un padre di 5 figli riferisce, a seguito di una separazione, di non poter più vedere il proprio figlio minore, quando uno di questi 5 figli gli era stato dato in affido e che egli ha cresciuto amorevolmente come fosse suo. “Dopo mesi di trattamento psichiatrico, anche se valutato non necessario, iniziato e concluso positivamente- racconta - sto ancora aspettando una decisone del giudice in merito, sono 5 anni che aspetto di vedere mio figlio”.
Categorica anche la posizione degli avvocati di parte, con qualche ricostruzione storica che merita attenzione. L’avvocato Fabio Valcanover ricorda che il Tribunale de Minori è un Istituto del 1934, deputato alla sussistenza degli orfani di guerra e che ciclicamente la discussione attorno alle sue dinamiche, si ripresenta. Proposte di legge bipartisan sono state presentate nel 2000, nel 2002 e nel 2008, mentre moltissimi sono gli episodi di suicidi di genitori o parenti a causa di questi provvedimenti. L’opinione prevalente è che oggi la società sia radicalmente cambiata rispetto al 1934 e quell’Istituto appaia ormai superato. La legge sul divorzio e il nuovo Diritto di Famiglia imporrebbero un cambiamento, istituendo un Tribunale della Famiglia, con più garanzie rispetto all’attuale stra potere dei consulenti.
I magistrati legittimamente difendono il loro ambito discrezionale in un contesto dove la materia è assolutamente complessa, oltre che dolorosa e dove corre l’obbligo di stare alla larga da giudizi affrettati, dal pour parler disimpegnato, o tranchant. Ma se è vero che una tematica così imprescindibile come tutela dei minori non si può dare in pasto a un giornalismo sensazionalistico e triturato dai dispacci d’agenzia, è pur vero che all’interno di una società sana è impensabile chiudere le porte al dibattito ed arroccarsi su posizioni cristallizzate. In una società sana i problemi si dibattono e si affrontano, con tutta la discrezionalità che vogliamo, con una cospicua dose di onestà intellettuale da parte di tutti, ma con l’esigenza primaria di muoverci in una direzione precisa: il bene dei bambini.
L’allontanamento dalla famiglia è la soluzione estrema, quando ogni altro intervento è fallito
A leggere i giornali, si capisce una cosa: poco importa che la madre fosse solo povera o magari pazza. Averle tolto la potestà genitoriale sulla figlioletta appena nata è, a prescindere, un gesto “disumano”. Leggo: “È vero, l’amore non basta; ma non è forse la cosa più importante in una famiglia?”. Ce lo dicano i diseredati. Nel frattempo, pe-rò, noi ci accolliamo l’onere di tracciare, coi nostri mezzi, il confine tra il diritto e la garanzia.
“Nessun intervento fatto a tutela dei minori è un intervento perfetto: c’è sempre margine di incertezza, perché la tutela del minore è una scatola vuota che va riempita di contenuti. Il problema è sempre il contenuto che si dà alla tutela”. Così mi dice Fabio Biasi, giudice del Tribunale dei Minorenni di Trento. Lo incontro nel suo ufficio, nel penultimo tepore di un mattino settembrino, mentre per le strade circolano automobili, passanti, madri con bambini, signore che lavorano per 500 euro al mese, assistenti sociali, coppie che litigano, nonni, psicologi e numerosi altri rappresentanti di categoria.
Già, la tutela del minore. Le decisioni del giudice sono, di principio, decisioni di tutela: servono, cioè a salvaguardare il bambino, non a punire i genitori.
“Una società che non tutela i minori non si può dire civile. La tutela dei soggetti più deboli deve essere il principio in una società di tipo orizzontale. Anche la tutela è una scatola che va riempita: ci vogliono personalità adeguate, saggezza, sensibilità, professionalità. Forse bisognerebbe parlare, più che di Tribunale dei Minorenni, di Tribunale delle Persone della famiglia: allargare cioè il campo dalla stretta tutela dei minori alle patologie familiari. Parlare di Tribunale dello status delle Persone. E fornire risposte snelle e sagge a tutti i disagi familiari”.
Biasi parla chiaro. La legge pure. Una dichiarazione di adottabilità arriva solo dopo che è stata accertata la carenza, da parte dei parenti, di assistenza, materiale e morale, al bambino. La carenza “prevedibilmente irreversibile e non dovuta a cause di forza maggiore di carattere temporaneo” di un’assistenza “ritenuta indispensabile per lo sviluppo armonioso della personalità di un minore”. Non la sbadataggine che causa un raffreddore, insomma. “Le scelte che si prendono sono scelte che non consentono alternative”. Il primo intento del legislatore, del resto, non è certo quello di allontanare, a scatola chiusa, il minore dai parenti.
Ma quali sono le basi sulle quali il giudice decide di intervenire, in forme più o meno severe (dall’assistenza sociale all’allontanamento)? Biasi mi spiega che “il tribunale è composto anche da magistrati onorari, ossia esperti di sviluppo dell’infanzia, neuropsichiatri e operatori del settore; questo aiuta il tribunale ad orientarsi. Ci si avvale poi di strutture come i servizi sociali (ove necessario) o di consulenze esterne, che in genere hanno formazione specifica”. Spende poi parole molto positive sull’équipe multidisciplinare per l’affido familiare che, composta da soggetti di varia estrazione, si occupa del monitoraggio delle situazioni di affido. Biasi mi spiega che le relazioni che il giudice riceve sono spes-so molto approfondite e richiedono, alle volte, anche molto tempo rispetto all’esigenza di prendere decisioni veloci.
Decisioni veloci: effettivamente, i provvedimenti che riguardano i minori vanno presi alla svelta. Non possono, cioè, passare anni sotto svariati gradi di giudizio. Tanto più che la fase di evoluzione nell’adattamento dei bambini, nei primi anni di vita, è molto delicata e rende estremamente critica la decisione.
Così ci si può poi imbattere anche nei casi di minori che non accettano la permanenza nei centri di accoglienza, pubblici o privati, ad essa dedicati.
“La sofferenza dei bambini c’è ed emerge: sia in comunità che durante l’affido; ma è legata al vissuto precedente”, mi spiega Anna Berloffa, direttrice del Centro per l’Infanzia di Trento, nel suo modo pacato. “Non è segno del disagio dovuto alla situazione di affido, ma è piuttosto la possibilità di sfogare proprio quello che si è accumulato precedentemente”. O magari della ricerca di una figura di riferimento, anche se negativa: fino all’estrema possibilità di cadere in una specie di sindrome di Stendhal. Perché il fatto che un bambino pianga e voglia tornare dalla madre non vuole certo dire, a priori, che tornare dalla madre sia il bene del bambino.
A chi si lamenta delle condizioni dei minori nelle strutture di accoglienza, Biasi risponde così. “Certo, sono pur sempre istituti: strutture che non possono sostituire dal punto di vista affettivo le famiglie”. D’altra parte, però, nei centri trentini “c’è un buon livello di accoglienza, costantemente monitorata. In Trentino la situazione è capillare e risponde alle esigenze”.
L’allontanamento, d’altra parte, non è mai la prima soluzione. È, piuttosto, una misura che viene adottata dopo che i servizi sociali hanno esperito tutti i possibili interventi di sostegno al nucleo familiare. Una soluzione che si attua, appunto, quando non ci sono alternative.
“L’ottica del servizio sociale è quella di aiutare a capire meglio la situazione, capire se la problematicità che si presenta è legata a frangenti critici che la famiglia sta attraversando. - mi spiega Berloffa - E proprio per questo si affronta il problema con la famiglia, per superare la difficoltà”.
Il Tribunale interviene solo quando è insanabile la spaccatura tra l’avvicinamento alla famiglia e il pregiudizio del minore: quando la difficoltà dei genitori a capire cosa sta succedendo ai figli non è superabile. “Quando manca la consapevolezza del rischio che il figlio sta correndo”.
“Gli assistenti sociali hanno la fortuna di lavorare in équipe, - prosegue la dirigente - non sono soli; e per di più devono rendere conto del loro lavoro sia all’ente pubblico che all’ordine professionale”. Non sono cani sciolti, quindi. D’altra parte, però, sono in prima linea, e in certi casi passano per “ladri di bambini”.
I rischi in effetti esistono, in una direzione e nell’altra. Trattando una materia così delicata, non potrebbe essere altrimenti. E chi si occupa di queste cose deve domandarsi quali conseguenze si incontrano nel lasciare il bambino tra le braccia della madre, quali nel portarlo via da lei. Andando incontro, certamente, ad una possibilità di errore. Croci e delizie dell’azione umana.
L’azione del Tribunale, però, mette sempre al centro il bambino. Anche quando è necessario predisporre interventi immediati e, a volte, drastici (come l’allontanamento stesso).
Capire, dall’esterno, se il genitore è inadeguato, per ragioni di diversa natura (dalla dipendenza al disagio psichico), è una faccenda molto delicata. Nessuno ha titolo per assegnare la patente di buon genitore.
Anna Berloffa sostiene che “non esistono genitori cattivi, ma genitori sofferenti, che non hanno potuto acquisire la capacità genitoriale perché in prima persona non l’hanno vissuta”. Spesso, in effetti, le situazioni critiche sono già in carico al servizio sociale; esiste, cioè, un tramando generazionale del modello familiare problematico. “Il lavoro per recuperare o imparare la capacità genitoriale è approfondito. Nel frattempo, però, il bambino non può vivere una situazione di rischio”. L’intervento del Tribunale, allora, consente al bambino di trovare, o ritrovare, un contesto sereno. Senza perdere il rapporto con i genitori, che sono chiamati, nel frattempo, ad assumere consapevolezza e responsabilità. A imparare. A migliorare. A non negare. A non confondere i ruoli.
Se il Tribunale dei Minorenni apre procedure di adottabilità, per fortuna le chiude, anche. A volte, l’intervento stesso del Tribunale può risultare quasi terapeutico. Può dare la possibilità di fermarsi e cominciare una strada diversa. Di recupero, e rielaborazione del trauma.
“Vanno spezzate le catene della violenza, e al tempo stesso rafforzate quelle della solidarietà”, dice il giudice Biasi.
E va ricercato, costantemente, l’equilibrio, mi viene da dire. Senza cadere nel tranello berlusconico secondo il quale il giudice è bravo e giusto se decide secondo la linea “di pancia”, mentre è cattivo e iniquo se assume un’altra posizione; né badando agli interventi a gamba tesa di certi ambienti cattolici, i quali vorrebbero (dissennatamente) riconoscere al genitore una sorta di possesso sul figlio ed una totale disposizione della sua esistenza.