Festival e valli: le chiusure che fanno male
L'Economia della Conoscenza: anche per le valli?
Il successo del Festival dell’Economia (vedi Un Festival per il futuro e articoli a seguire) pone a nostro avviso al Trentino un nuovo ordine di problemi.
Nel senso che esso si prefigura come un tassello di un disegno complessivo, teso a ridisegnare un nuovo sviluppo basato su cultura e innovazione: la cosiddetta economia della conoscenza.
Il problema sorge nel rapporto con le valli: perché un tale modello presumibilmente risulterà concentrato nelle città. Se si ipotizza uno sviluppo basato sulla risorsa cervelli, sui talenti, occorre prevedere un’adeguata attrattività del territorio (La cultura molla dell'economia: funziona?). E le valli avranno dalla loro la bellezza dell’ambiente naturale, ma poco altro. Non la massa critica, non le occasioni culturali; e rischiano di non avere il clima complessivo di tolleranza al diverso e favore verso il nuovo, che si è visto essere condizione indispensabile.
Il punto non è essere capaci di attrarre a Sfruz gli ingegneri informatici di Bombay. E’ però tenere in valle i propri laureati.
E qui il discorso si interseca con le prospettive di fondo, evidenziate anche dagli ultimi esiti elettorali. Le valli, peraltro floride, risultano timorose, quasi smarrite di fronte all’incalzare delle novità del secolo. L’attuale indubbio benessere, appare precario, i valligiani, nuovi ricchi, temono di essere ricacciati nelle condizioni di 60 anni fa. Non vedono il futuro. Dalla globalizzazione hanno ricevuto gli operai del profido senegalesi, le cameriere rumene, i raccoglitori slavi, i turisti polacchi. Potrebbero anche averne (come già oggi a Innsbruck) i turisti indiani e domani cinesi. E invece ne hanno paura. Temono la concorrenza dei nuovi impianti sui Monti Tatra, delle spiagge equatoriali, dele mele cinesi, delle vigne del Cile.
Il mondo fa paura e ci si chiude. Protestando per le troppe tasse, i pochi contributi (!), l’"invasione" degli immigrati. E allora del Festival dell’Economia al valligiano-tipo non interessa alcunchè, anzi, dà fastidio, come evidenziano alcune letteracce ai quotidiani (vedi E’ andata bene: che guaio!).
Purtroppo questa chiusura rischia di essere a sua volta madre di ulteriori marginalizzazioni: quanti giovani valligiani, laureatisi a Trento, ritorneranno al paesello, sapendo che lì non troveranno neanche un decimo degli stimoli della città?
Prendiamo ad esempio un recente bel fatto di cronaca: il pallavolista Leonardo Morsut dell’Itas di Trento, stella della squadra, che a 25 anni rinuncia a un contratto triennale di 150.000 euro annui per andare a fare il ricercatore all’università. Per 15.000 euro. Un grande atto di fiducia: in se stesso e nel futuro.
Ma questo è accaduto a cavallo dell’Itas di Trento e dell’università di Padova. Questa speranza, questa cultura del futuro, c’è a Malè o a Canazei?
A nostro avviso, proprio quando le città del Trentino sembrano trovare una loro strada nel nuovo mondo attuale, urge ripensare il rapporto con le valli. Perché non siano solo periferia.