Elementari e dintorni
Ogni lettera si appoggiava alle righe del foglio fino a che, qualche anno dopo, si era padroni della scrittura...
Cominciai la prima elementare sapendo già leggere e scrivere. La scuola fu, da subito, un luogo dove la mia voglia di imparare veniva appagata. Per me i compiti a casa non erano mai abbastanza, li eseguivo velocemente e poi mi avanzava tanto tempo. Ma nessun gioco aveva lo stesso fascino di esercitare la mente componendo pensierini da scrivere con asticciola e pennini intinti nel calamaio.
La mia maestra era una contessa che doveva lavorare come tutti gli altri per vivere e trasferiva nell’insegnamento la fierezza del suo animo. Con il suo portamento elegante, ci accompagnò dal primo giorno di scuola fino agli ultimi, cinque anni dopo, lasciando un’impronta indelebile nella mia vita.
Mi piaceva andare a scuola con grembiulino nero e fiocco rosa, la cartella di cuoio con dentro l’alfabetiere, il sussidiario, i quaderni a quadretti e a righe diverse in base alla classe frequentata.
Ecco, lì non c’era l’ansia del foglio bianco. Si cominciava facendo le aste, poi le vocali e le consonanti. Ogni lettera si appoggiava alle righe del foglio fino a quando, alcuni anni dopo, si era padroni della scrittura. L’ansia veniva invece quando, con la gomma dell’inchiostro, si tentava di cancellare l’errore e il buco nel foglio era il danno irreparabile che sanciva la nostra maldestra ignoranza.
In un quaderno di bella calligrafia esercitavamo la forma con accuratezza ed ordine.
Ordine era sicuramente la parola più usata a scuola. Ecco perché il disordine nei quaderni dei miei figli mi inquietava così tanto. Temevo fosse mancanza di ordine mentale. Come se la testa fosse un quaderno o un cassetto. Che strane associazioni si fanno a volte.
Ma per loro a scuola era diverso: iniziavano scrivendo in stampatello su un foglio bianco una breve frase compiuta per poi passare al corsivo, senza il salvagente del quadretto.
Metodi opposti: noi partivamo dalla forma per arrivare alla sostanza, loro subito dalla sostanza perché la forma era meno importante.
Ma le differenze tra le mie e le loro elementari cominciavano già dall’alfabeto che noi pronunciavamo a bi ci di e effe gi … e che per loro era a b c d e f g … con suoni gutturali.
Il nostro far di conto seguiva il metodo tradizionale con caselline studiate a memoria e mai più dimenticate, loro facevano l’insiemistica con i regoli o il metodo Papy con i blocchi. Le caselline poi hanno dovuto impararle anche loro!
Gli unici disegni che ricordo di aver fatto a scuola erano le cornicette in fondo ai compiti di matematica. Arrivata alle medie, ho provato l’ansia del foglio bianco, quando ho dovuto disegnare degli alberi a mano libera senza averlo mai fatto. Un vero disastro.
Ho sempre ammirato la scuola dei miei figli proprio perché stimolava la loro creatività. Ecco, pensavo guardando i loro disegni, non saranno ordinati, scriveranno come delle galline, ma la loro fantasia è libera di creare.
Devo alla mia maestra l’amore per la lettura, la scrittura e tutte le materie letterarie. Nella piccola biblioteca scolastica ogni settimana ci faceva scegliere un libro ed è iniziata così la mia fame di sapere. Da grandi tutte volevamo fare la maestra, perché eravamo conquistate da lei; era come ascoltare il maestro Manzi delle prime trasmissioni televisive.
Ricordo che un giorno mentre eravamo tutte in doppia fila per uscire e fuori pioveva, la mia compagna aprì e chiuse l’ombrello più volte causando mormorii nelle vicine. La maestra, che era di spalle, si girò e si rivolse a me chiedendo cosa stava succedendo. "Niente - risposi - Lucia ha acceso l’ombrello" (parlando dialetto a casa avevo fatto la traduzione simultanea: empizar = accendere). Allora la maestra fingendo spavento esclamò: "Al fuoco, al fuoco!" Io sorpresa, insistei:"Ma no, maestra, ha acceso l’ombrello". E lei di nuovo: "Al fuoco, al fuoco!" Rimasi a bocca aperta. La maestra proseguì spiegandomi che l’ombrello non si accendeva ma si apriva. Da quel giorno non accesi più nessun ombrello.
Non ricordo d’averla mai sentita alzare la voce; aveva un carisma naturale e affascinava con il suo tono tranquillo ma vivace. Se penso alle voci stridule, acute, sgolanti sentite negli anni successivi, capisco perché sia difficile prestare attenzione a chi urla invece di spiegare.
Ma insegnare è sempre più difficoltoso, dicono: non ci sono più i bambini di una volta, è colpa della televisione, colpa dei genitori, doppia colpa se sono separati, colpa delle merendine che contengono una sostanza che non li fa stare attenti, colpa di una nuova malattia che si chiama ADHD …
Del periodo scolastico ricordo anche la noia delle vacanze estive. Erano interminabili; il tempo passava con il contagocce. A giugno andavo al mare in colonia e poi rimanevano i lunghissimi pomeriggi di luglio e agosto con il sole accecante e la città vuota.
L’unica risorsa erano i libri che leggevo avidamente e trovavo in parrocchia dove c’era una discreta biblioteca. Riempivo la rete della spesa di libri e ritornavo a prenderne di nuovi la settimana dopo. Mia madre all’ennesimo carico di libri protestava: "Leggi, leggi, che non serve a niente: lavora ad uncinetto invece, impara a far la maglia, a ricamare".
Ma io non perdevo tempo. Stavo crescendo dentro. Coltivavo il mio mondo interiore conoscendo emozioni nuove e inaspettate. Le storie che leggevo si depositavano dentro di me e poi ne arrivavano altre di nuove, in un crescendo continuo che affinava il piacere di leggere facendolo diventare una ricchezza, una necessità, una stanza tutta per sé.
Quel piacere della lettura non mi ha mai abbandonato. Infatti ho ancora molti libri da leggere e tanto da imparare.