A cosa giocavi da piccolo?
Nei giochi fatti da piccoli c’è l’embrione di quello che faremo da grandi?
Il gioco, iniziato qualche anno fa nella rubrica di Stefano Bartezzaghi (figlio d’arte) "Lessico e Nuvole" (sul Venerdì di Repubblica), era nato da una splendida battuta proposta da una lettrice: a che gioco giocavano Giovanni Battista e Gesù Bambino da piccoli? Risposta: a testa o croce. Proseguirono da lì una lunga serie di esilaranti proposte dei lettori. Silvio Pellico a palla prigioniera. San Sebastiano a freccette. Ulisse a nascondino. Picasso ai cubi. Giuda alla corda. Ali Babà a scala quaranta. Santa Lucia a mosca cieca. Dedalo al labirinto, Mussolini all’uomo nero … e chi più ne ha più ne metta. C’è qualcosa di fondamentalmente cinico in questo gioco: la cosa divertente è sorprendere un’abitudine infantile che lasci presagire il risultato finale.
Il gioco mi aveva divertiva molto e incuriosita al punto di approfondire il tema con il libro "Per gioco" di Maria Concetta Cicala, docente napoletana di filosofia, dove vengono rilette le autobiografie di quarantanove grandi personaggi entrati nella storia, alla ricerca delle pagine in cui questi parlavano dei propri giochi preferiti e dove quasi tutti raccontano giochi che assomigliano alla loro immagine da adulti. Per esempio, Napoleone non giocava con i coetanei, Hitler era un capobanda, Churchill giocava con i soldatini, Neruda scriveva lettere d’amore, il Dalai Lama era in cerca dell’illuminazione. Sicuramente in tutti è simile il modo di negare l’infanzia, raccontandola a posteriori.
Argomento sempre d’attualità, perché l’ultimo Venerdì di Repubblica dedica la copertina e ben dieci pagine, al tema "cosa volevo fare da grande". Renzo Arbore voleva fare l’elettricista perchè la luce era il suo pallino, Achille Bonito Oliva, originalissimo anche qui, avrebbe voluto fare solo il bambino, ma poi ripiegò sull’agente segreto, Giovanna Melandri la filosofa, Lina Wertmüller la ballerina, ecc. Da ultimo, il consiglio di un famoso psicoanalista ai genitori: state attenti ai sogni impossibili dei vostri bambini! Un bambino che sogna di diventare Schumacher, in realtà ha aspettative enormi, sintetizzabili nel sogno di diventare famoso!
Ho ripensato ai miei figli, a cosa volevano fare da grandi, e mi sono sentita sollevata, della serie "almeno questa mi è andata bene! Matteo, in seconda elementare, voleva fare il pastore e da bambino responsabile qual era s’informava seriamente dal nonno su quale scuola bisognava fare. Alessandra invece, sempre a quell’età, voleva fare la casalinga. Ecco, qui dentro di me, ero un po’ triste e pensavo di meritarmelo, perché avevo dato il cattivo esempio o che mi avessero scambiato la bambina nella culla, ma era solo perché noi femministe lottavamo per il lavoro fuori casa e la parità di diritti. In ogni caso, erano lavori umili e facilmente realizzabili; poi nella realtà da grandi hanno fatto altre cose e si ride insieme ripensandoci.
Sempre in tema ho ripescato la mia infanzia fino ai dieci anni; già da lì si capiva che ero una bambina complicata. Allora le femmine portavano gonnelline corte e giocavano con bambole, a mamma e papà, saltavano alla corda, mentre i maschi indossavano braghette corte e si divertivano con biglie, fionde, soldatini e pistole costruite con un pezzo di legno.
Il mio non essere allineata ebbe inizio forse allora, perché non giocavo con le bambole - allora erano irraggiungibili, di porcellana, vestite di pizzo e sedute immobili sul letto dei miei genitori - e non volevo sparare con le pistole. Giocavo con i bottoni, di vari colori, materiali e fo3rme diverse, con i quali avevo riempito un po’ alla volta - litigando con mia madre che li avrebbe usati - una scatola di latta. Inventavo storie che nessuno m’aveva raccontato, che non avevo visto in televisione (avevo dieci anni quando i miei genitori la comprarono), storie che in parte ripescavo nei libri che leggevo allora, e che poi ampliavo con grande fantasia, ma reale e possibile, perché poi le ritrovavo simili nei libri. Se leggevo per esempio "La storia di Cosetta", tratta dai "Miserabili", la protagonista diventava, assieme agli altri personaggi, un bottone rosa di madreperla. Mi bastava scegliere i bottoni, disporli in perfetto silenzio sul pavimento; senza muovermi restavo sdraiata per terra per ore, in contemplazione. Mia madre s’inquietava moltissimo, ma le fantasie dei bambini sono incomprensibili agli occhi di un adulto che tenta di capire cosa sta succedendo nella testa di un bambino.
Cosa può diventare una che da piccola giocava con i bottoni? Una sarta? A vent’anni ho tentato di dare questa spiegazione, agevolando l’inclinazione con un corso di taglio e cucito, ma nella pratica il diventar sarta non faceva per me. Allora forse serve una spiegazione più intellettuale, pedagogica e qui bisogna scomodare l’Emilio di Rousseau, il Candido di Voltaire, Locke e via dicendo, fino a Rudolf Steiner. Il giocar con i bottoni è sicuramente segnale di un’infanzia povera di stimoli e giocattoli, dove un bambino gioca con quello che trova in casa e sviluppa in questo modo la fantasia.
Noi bambini degli anni ‘50 e ‘60 siamo sopravvissuti e diventati grandi, nonostante la nostra infanzia fosse costellata di pericoli e senza gli stimoli del computer, della playstation, dei videogiochi. Andavamo in bicicletta senza casco, non avevamo i cellulari, medicinali e candeggina erano a portata di mano, nelle stanze spruzzavano il flit per uccidere mosche e zanzare. Mangiavamo pane, burro, soffritti e salumi senza diventare obesi, masticavamo pezzi di ghiaccio o di sale, a seconda delle stagioni e delle carenze alimentari. Se i nostri genitori avevano un’automobile, sicuramente non ci mettevano dietro sul seggiolino e con le cinture di sicurezza. Ricordo la macchina di mio zio, sulla quale salivamo in dieci, dodici ogni domenica, io sempre dietro, compressa tra cugini e genitori; la mia via crucis iniziava alla prima curva del tragitto con nausea e mal di testa, poi tutto si confondeva, e bianca come uno straccio riprendevo conoscenza e colore arrivata dai nonni. La strada fra Trento e Sopramonte era un viaggio lunghissimo e l’unica cosa interessante che riuscivo a vedere dai finestrini erano le carrozzelle per bambini nella vetrina al secondo piano di un negozio. Le gite domenicali dai nonni sono durate oltre tredici anni; cessarono bruscamente dopo una lite fra parenti e noi bambini, cuginetti molto legati, facemmo le spese della discordia degli adulti che ci separarono. Nessuno psicologo ci aiutò a superare il lutto!
Il primo parco giochi, lungo il Fersina, aveva altalene talmente alte che sembrava di volare ed i più bravi riuscivano a fare il giro completo intorno all’asta che le sosteneva. Nessuno aveva mamme ansiose che controllavano dalla panchina e dalla prima elementare in poi eravamo autorizzati a girare per strada da soli.
Andavamo a scuola a piedi e da soli fin dal primo giorno, perché magari in casa era nato un fratellino. Quando i dentini da latte cadevano ci vergognavamo per un po’, perché c’era sempre qualche ragazzino più grande che ci prendeva in giro e nessun topolino ci portava soldini o regali.
L’estate si andava in colonia: io ho iniziato un mese prima dei sei anni e finito a dodici, con le fragilità e le inquietudini di un’adolescente, e le mie prime mestruazioni che stavano arrivando spiegate da una "signorina" della colonia.
Non credo che la mia infanzia sia stata da libro Cuore e non ero sicuramente l’unica sventurata. Allora non andavano di moda gli psicologismi tipici dei tempi attuali e si cresceva così, un po’ da soli: perché i nostri genitori si occupavano più di darci da mangiare che di aiutarci psicologicamente; perché la natura faceva il suo corso; e perché forse avevamo un angelo custode dietro le nostre spalle.