Volti e corpi della scuola
Una mostra sulla storia del più antico istituto tecnico della regione, l'ex Scuola Reale Elisabettina. E come la storia di una scuola può interessare tutti.
L’Istituto tecnico "Felice e Gregorio Fontana" compie 150 anni. Non è la nostra scuola più antica, giacché gli storici Ginnasi delle due città affondano le loro origini nel secolo XVII, ma fu per parecchio tempo la prima Realschule esistente tra Verona ed Innsbruck: la prima scuola di indirizzo tecnico-scientifico, la prima in grado di avviare i giovani (era una scuola rigidamente maschile, come il Ginnasio d’altronde) al Politecnico.
Fortemente voluta, fin dal 1850, dal Municipio di Rovereto per dare incremento alle imprese commerciali, la Scuola Reale Elisabettina (così intitolata in onore dell’imperatrice Elisabetta) sfuggì a finalità immediatamente professionalizzanti per fornire, alla lunga, una formazione più vasta e completa.
Ora la sua storia e la sua memoria (quella dell’istituzione e quella dei soggetti che vi passarono parte della propria vita) sono ricostruite da una mostra che si snoda (in un doppio percorso) lungo i corridoi e gli spazi interni dell’Istituto.
Il primo itinerario cronologico si sofferma, certo, sullo sviluppo della scuola, sulle fratture storiche, sulle riforme che ne mutarono profilo e finalità, sull’intreccio tra storia scolastica e storia politica, ma insiste soprattutto a mostrarci i volti e i corpi dei protagonisti e a raccontarci le loro storie.
I volti della Scuola Reale sono quelli di professori prestigiosi che avevano studiato a Graz o a Vienna e che erano già transitati per le scuole medie di Trieste o di Capodistria, ricercatori in proprio, autori di libri di testo. Descritti come professionisti severi, ossequienti alle leggi disciplinari fino alla pedanteria, grigi funzionari dell’Impero, si rivelano in alcune fotografie di classe più come fratelli maggiori degli studenti, in pose informali di qualche complicità: come a invocare da parte nostra un giudizio meno sbrigativo sulla rigidità dei ruoli e dei rapporti.
Perché sulla durezza delle pratiche di disciplinamento di quella scuola non ci sono dubbi. Allo studente erano vietati luoghi della città, tempi di vita, attività fisiche, esperienze culturali ed affettive: vietati i caffè, le osterie, le birrerie, i balli pubblici, il teatro, le mascherate di carnevale. Non gli era permesso di istituire società, né di associarsi; leggere in pubblico o stampare scritture proprie.
Ma con "spontanea religiosità" e "sincera divozione" doveva, pena severe misure disciplinari, partecipare alle pratiche religiose.
Per fortuna i registri e i verbali della scuola ci restituiscono poi, nei processi agli allievi (citati anche in mostra), il riflesso di una vita studentesca trasgressiva, insofferente del rigido controllo e delle inquisizioni degli Unrat di casa nostra.
Una corposa sezione fotografica ci restituisce i ritratti di una giovane generazione, quella a cavallo tra Otto e Novecento, di cui facevano parte molti degli intellettuali e degli artisti più moderni della nostra storia regionale, da Fortunato Depero a Tullio Garbari a Luciano Baldessari, ingegneri politecnici come Giovanni Tiella, Giorgio Wenter Marini, Riccardo Maroni, costruttori di centrali idroelettriche, imprenditori di genio come Gianni Caproni.
Un’isola tematica è dedicata al "fondo Comel", dove si può vedere, in un video realizzato per l’occasione dal Museo civico di Rovereto, un’ampia selezione delle oltre trecento opere pittoriche (disegni e acquarelli) realizzate nelle ore di disegno a mano libera, tra il 1903 e il 1913, dagli studenti della Scuola reale sotto la guida di Luigi Comel, docente prestigioso e amato dai suoi allievi. Sono prove scolastiche, compiti, ma dicono qualcosa sia di una pratica didattica che della precoce vocazione di artisti come Depero, Garbari, Baldessari, Tiella, Cainelli.
Tra le foto in mostra ritorna, più volte, quella della classe di Damiano Chiesa. E con lui, che qui appare in pose socievoli e conviviali, si affacciano con forza la questione nazionale e la scelta irredentistica.
Nei primi anni del Novecento gli studenti medi diventano sempre più attenti alle parole d’ordine messe in circolazione dai loro fratelli più grandi (l’università italiana, innanzitutto) e tentano di seguirli anche sulla strada delle rivendicazioni e delle manifestazioni pubbliche fino al clamoroso sciopero scolastico del 2 novembre 1912.
Ma cosa significava, in termini culturali e soggettivi, dirsi irredentisti? Significava scegliere un atteggiamento di opposizione: al potere politico dominante, alla disciplina scolastica, all’ordine pubblico.
L’architetto Luciano Baldessari, che abbiamo già ricordato, e Remo Costa, altro studente della Realschule, in seguito dirigente industriale e comunista, irredentista ed internazionalista, hanno scritto in un loro profilo autobiografico: "Noi eravamo irredentisti: basta col paternalismo di classe, con l’educazione all’ombra del potere; basta con le leggi disciplinari, con la messa domenicale; in noi c’era lo spirito del ribelle, non del rivoluzionario, della ricerca di una libertà astratta sino al paradosso. Pensiamo che in fondo questo sia stato lo spirito propulsore della nostra gioventù. Forse nel subcosciente, senza un esame critico, si sentiva che il vecchio Impero era morente, che la quiete ben educata e arginata stava per finire".
Così il titolo della sezione relativa alla scuola e la guerra si intitola significativamente La guerra europea e i destini lacerati: in mostra ci sono i ritratti dei giovani studenti che volontariamente decisero di arruolarsi nell’esercito italiano e di coloro che finirono a combattere, in divisa austriaca, sul fronte russo e poi ci sono le lettere dei compagni di scuola che si cercano e si piangono e le dolenti epigrafi dei caduti sul campo.
Con l’annessione all’Italia e la trasformazione della scuola in un Regio istituto tecnico, troviamo i volti delle prime studentesse. Bisogna dire che nel vicino Regno d’Italia alle ragazze non era interdetta la frequenza delle scuole medie e con grande timidezza a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento le ragazze avevano effettivamente iniziato ad iscriversi al Ginnasio-Liceo e alle Scuole tecniche.
(Di questa differenza tra Austria e Italia, ebbe recentemente a meravigliarsi un nostro assessore provinciale, convinto della presunta modernità, anche in questo campo, del sistema scolastico austriaco!).
Così sono le ragazze, che utilizzano i corsi inferiori come una scuola media di transito per poi andarsene altrove, a dominare questa sezione: ragazze insaccate nei loro grembiuli neri e ragazze in gonnella leggera nelle grandi coreografie mussoliniane.
Nel secondo dopoguerra l’Istituto tecnico riprende l’attività con il profilo già definito dalla Carta della Scuola di Bottai: cinque anni, le due sezioni di ragioneria e geometri. Con gli anni Cinquanta diventa una scuola di massa. Studenti e studentesse cercano un loro ruolo e un loro spazio sui giornalini scolastici, che ci paiono ora uno straordinario documento di vita scolastica e di vita giovanile. In mostra ne troviamo alcuni: "Il Mulo", ad esempio, realizzato tra il 1954 e il 1956 dagli studenti dei tre istituti superiori di Rovereto, che affronta la difficile comunicazione tra ragazzi e ragazze (rapporti formali, sguardi sospettosi) e il disagio con cui si vive la scuola (Il muro di ghiaccio è uno dei titoli più efficaci).
Dieci anni dopo "Il Girasole", il nuovo giornalino dei soli studenti liceali (un austero ciclostilato), apparirà più impegnato a far circolare e dibattere i temi politici e culturali d’attualità, la guerra del Vietnam, la fame in India, la cultura beat e l’anticonsumismo, l’obiezione di coscienza. Con una libertà critica e una curiosità intellettuale impensabili rispetto alle generazioni precedenti.
Fuori dal percorso cronologico, troviamo poi una sezione dedicata alla biblioteca scolastica, un’altra che mette in mostra una piccola selezione del ricchissimo fondo di carte parietali conservato dalla scuola; per finire con i lavori realizzati dagli studenti di questi ultimi decenni.
Come concludere?
Ricostruita attraverso questo approccio, la storia di una scuola può interessare tutti: nessuna nostalgia, nessuna mitizzazione, nessun provincialismo.
Diventa, piuttosto, un punto di vista privilegiato per leggere trasformazioni e dinamiche più generali, politiche, culturali, generazionali.