Un ponte sulle rive del Bosforo
Il caso dello scrittore Orhan Pamuk ci parla di noi, della Turchia, di quale Europa vogliamo costruire. Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello.
Istanbul, 16 dicembre 2005. E’ una mattina fredda e piovigginosa e le telecamere delle televisioni riescono a stento a inquadrare lo scrittore Orhan Pamuk che, blindato in mezzo a un cordone di poliziotti e di europarlamentari, s’infila dentro il tribunale inseguito dalle minacce di gruppi esagitati di nazionalisti turchi. La ripresa è traballante e ci consegna il fotogramma d’un viso pallido e frastornato, lo sguardo severo e incredulo dietro le lenti. Poi s’allarga sui caschi e le armi degli agenti e riprende la rabbia dei manifestanti che tra un nugolo di bandiere con la mezzaluna s’arrampicano sui cofani delle vetture e rivolgono alle Tv il gesto tipico dei Lupi grigi: le dita a corna.
Per cosa è processato Pamuk? Per "insulto deliberato all’identità turca", secondo l’art. 301 del codice penale. Lo si accusa cioè di aver dichiarato al giornale svizzero Tages Anzeiger che tra il 1915 e il 1917 l’esercito turco fu responsabile dello sterminio di un milione di armeni. E che dal 1984 a oggi il conflitto tra militari e separatisti curdi ha portato al massacro di 30.000 curdi. Rischia una condanna fino a 6 anni di reclusione perché un reato, se commesso all’estero, vede la pena raddoppiata.
E invece, dopo un’ora di attesa, arriva imprevisto l’annuncio dei giudici: il processo è sospeso perché il governo non ha materialmente inviato l’autorizzazione a procedere. L’udienza è rinviata.
Cavilli da azzeccagarbugli. In realtà il governo di Erdogan non vuol fare harakiri rischiando l’ingresso nella Unione Europea, e l’archiviazione definitiva arriverà a fine gennaio 2006. Ma il tentativo d’un processo così indecente ha acceso sulla Turchia i riflettori dell’indignazione mondiale.
Come un tempo l’Italia con le foibe o il Giappone con i crimini commessi in Cina e i Corea; o la stessa Cina con la pulizia etnica in Tibet, anche la Turchia ha il suo scheletro nell’armadio: il genocidio armeno.
Di che si tratta? Ci aiuta a capirlo il bel libro di Taner Akcam appena uscito per i tipi della Guerrini&Associati: "Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero ottomano alla Repubblica". Il testo è l’esame di un periodo storico che va dal 1878 al 1918, un susseguirsi di shock innescati dall’agonia dell’Impero Ottomano, che si sbriciola e perde l’85% delle terre e il 75% della popolazione. Un’epoca vissuta con disonore e scorno dalla società turca che cercava un riscatto qualsiasi per guarire l’orgoglio ferito.
L’illusione la regala lo scoppio della Prima guerra mondiale, ed è qui che nasce la questione armena. Nonostante coabitassero da secoli nell’Impero Ottomano, gli armeni, cristiani e filo-occidentali, decidono d’appoggiare la Russia, avversaria della Turchia. La reazione del governo è brutale: per paura di avere all’interno una possibile quinta colonna dello Stato russo, organizzano nel 1915 la deportazione nel deserto di Deir Zor di un milione di armeni e li trucidano. Si può definirlo genocidio? Di sicuro fu un massacro, anche se forse non c’era la volontà sistematica dello sterminio razziale. Su questa pulizia etnica e l’esodo da Smirne di trecentomila greci si fondò la nascita della Repubblica di Mustafa Kemal Ataturk.
Aprire oggi un dibattito su questi fatti significherebbe mostrare che lo Stato turco non è nato dalla lotta anti-imperialista contro le nazioni dell’Intesa, ma dallo sterminio delle minoranze armene e greche. L’argomento è così imbarazzante da essere un tabù. Chiunque lo nomini viene denunciato e sbattuto in galera per "vilipendio alla nazione".
Il Paese è come diviso in due. Da una parte la nascente società civile che si batte per le riforme e l’ingresso in Europa. Dall’altra il cosiddetto "Stato profondo", un ventre molle di ambienti disparati ma contigui (ultranazionalisti, magistrati, militari, burocrati, politici ) legati dalla paura di perdere il potere e contrari ad ogni cambiamento. E’ un establishment elitario e patrizio, di cultura reazionaria e sanfedista, che vede la democrazia e l’inclusione europea come il diavolo.
Una censura occhiuta e asfissiante continua a mettere alla sbarra in Turchia decine di intellettuali. Anche se parzialmente modificato, il famigerato ex articolo 159 - di cui l’Unione Europea ha chiesto l’abrogazione – di fatto strangola la libertà d’opinione, consentendo a oscuri magistrati e avvocati ultranazionalisti di intervenire coi mezzi più torbidi. Fioccano multe e intimidazioni su giornali, canali tv e case editrici. Si richiede la lettura preventiva di bozze e manoscritti per la regolare approvazione statale. E’ obbligatorio uno speciale visto ufficiale per qualsiasi tipo di pubblicazione. Attualmente, secondo i dati del Pen internazionale, ci sono più di 50 tra scrittori, giornalisti ed editori sotto processo. La Turchia continua a essere per i suoi intellettuali quel "campo di cardi" che costrinse all’esilio il suo bardo più prestigioso, Yashar Kemal, cantore dell’epopea curda. O la cortina di ferro che s’era chiusa attorno al grande poeta Nazim Hikmet, scomparso a Mosca nel 1963, solo e abbandonato da tutti. Per non parlare del geniale umorista Aziz Nesim o del regista Yilmaz Guney, che ha rastrellato premi nei festival di tutto il mondo.
Pamuk è solo l’ultimo caso. Ancora più inquietante perché contiene un’intimidazione inequivocabile agli intellettuali di casa: vedete? Siamo capaci di colpire anche uno che è molto famoso all’estero, è tradotto in 30 lingue ed è candidato al premio Nobel. Occhio alla penna, quindi!
Lui, Pamuk, la pietra dello scandalo, si limita a reagire con pacata ironia: "Poiché la Turchia è un paese che a ogni occasione onora i suoi pasha, santi e poliziotti, ma si rifiuta di onorare i suoi scrittori finché non hanno passato anni fra tribunali e prigioni, questo processo mi qualifica, finalmente, come un vero scrittore".
Non sono mancate a sostegno di Pamuk le prese di posizione di scrittori del calibro di Josè Saramago, Gabriel Garcia Marquez, Günter Grass, Umberto Eco, John Updike, Carlos Fuentes. Ma due testimonianze sono particolarmente significative perché allargano il caso turco a una dimensione più globale.
La prima è di Salman Rushdie, la vittima più nota della fatwa. Riflettendo sul caso Pamuk e il lato oscuro della Turchia, Rushdie arriva alla conclusione che un’Europa senza nerbo e priva di principi, che non è in grado di difendere i grandi artisti e la libertà di pensiero, è un’Europa inutile. Respingere la Turchia sarebbe una catastrofe perché amplierebbe il divario tra Islam e Occidente, ma il suo ingresso è un banco di prova anche per dimostrare i principi morali della stessa Unione Europea. Sotto esame sono l’Occidente quanto l’Oriente. Su entrambe le sponde del Bosforo il caso di Pamuk è dirimente.
L’altra testimonianza è quella di Predrag Matvejevic’, l’ispirato autore di "Mediterraneo". Poco tempo fa il grande scrittore croato è stato condannato a 5 mesi di carcere per aver denunciato in un saggio ("I talebani cristiani") la responsabilità degli intellettuali nazionalisti che hanno aiutato i signori della guerra a infiammare il conflitto balcanico, svolgendo coi loro scritti una propaganda micidiale che ha portato alla pulizia etnica, ad oltre 200.000 morti nella ex Jugoslavia e a più di due milioni di esiliati. Matvejevic’ fa nomi e cognomi: dal serbo Dorica Cosic, a diversi autori croati, fino ad un oscuro poeta bosniaco, Mile Pesorda. E’ proprio quest’ultimo a denunciarlo per "ingiuria e diffamazione", e a farlo condannare.
La riflessione di Matvejevic’ è simile a quella di Rushdie: quale Europa vogliamo? E auspica un’Europa meno eurocentrica di quella del passato; più aperta al cosiddetto Terzo Mondo dell’Europa colonialista; meno egoista dell’Europa delle nazioni; più Europa dei cittadini che si danno la mano e meno quella degli Stati che si fanno guerra. Un’Europa più consapevole di se stessa e meno americanizzata. Più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente che orgogliosa e - perché no? - più socialista dal volto umano e meno capitalista senza volto.
I nonni di Orhan Pamuk erano ingegneri civili e il padre era dirigente della sezione turca dell’Ibm. Una tipica famiglia della nuova borghesia imprenditoriale, anche se con alterne fortune economiche. Orhan studia al liceo americano di Istanbul e si larea all’Istituto di Giornalismo. Il suo primo libro, "Il signor Cedvet e i suoi figli", narra la storia di tre generazioni di un’agiata famiglia di Nisantasi, il quartiere di Istanbul dove lo scrittore è nato. Diventa noto in Europa con la traduzione in francese del suo romanzo "La casa del silenzio", nel 1991.
Colpisce nell’opera di Pamuk il tema dell’identità. Senza distinzioni manichee tra Occidente e Oriente: "I miei libri li ho scritti in buona parte proprio per affermare che Oriente e Occidente non esistono. Per me il mondo è un unicum. Noi e voi siamo i rappresentanti di due facce della stessa cultura" .
E con un’immagine autobiografica molto concreta, spiega: "Ho trascorso la mia vita a Istanbul, sulla riva europea, in una casa che s’affacciava sull’altra riva, l’Asia. Un giorno è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che il meglio era essere un ponte tra le due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere totalmente né all’una né all’altra svelava il più bello dei paesaggi".