Un pezzo di Turchia
Alla scoperta della periferia di Ankara
Quando raccontai di essere stato per la prima volta in un gecekondu, i miei compagni turchi della rinomata università Bilkent mi presero per pazzo. Per loro, rampolli della borghesia cittadina, i gecekondu sono i luoghi più pericolosi della capitale della Turchia, Ankara. Luoghi dove “non puoi evitare di essere aggredito”, perché “tutti, anche i bambini, hanno dei coltelli e li usano per rubare”, essendo persone che “non vogliono un lavoro vero”.
I miei compagni ignoravano che a portarmici fosse stato Mehmet, una delle guardie armate del campus, ossia uno di quelli che, per lavoro, si occupano di difendere gli studenti ricchi da chi vuole derubarli. Uno dei fortunati che è riuscito a trovare una fonte di sostentamento al di fuori del quartiere, in un mercato del lavoro sempre più saturo.
Dal turco gece, notte, e kondu, “costruito in fretta”, il termine gecekondu indica gli insediamenti costruiti illegalmente durante la notte, nati come funghi nelle città turche durante l’immigrazione di massa dalle campagne degli ultimi trent’anni del Novecento. Il caso della capitale è sicuramente il più impressionante.
Nel 1923, Ankara fu inventata capitale del neonato stato turco. Allora, essa non raggiungeva i 20.000 abitanti. Oggi, le fonti ufficiali le attribuiscono una popolazione di 3,9 milioni di abitanti, mentre alcune stime arrivano fino a 5.
La città ha un nocciolo formato da quartieri residenziali e dalle sedi di tutte le attività diplomatiche, economiche ed amministrative di una capitale, circondato da una distesa interminabile e variopinta di abitazioni il cui unico criterio di costruzione è stato la necessità di avere un tetto sopra la testa nel più breve tempo possibile.
Quartieri abusivi che l’agenzia ONU UN-habitat non ha esitato a far rientrare nella categoria di slum. Il distretto Altindag,, dove vive Mehmet, è considerato il 25° più grande slum del pianeta. Ospita quasi 500.000 persone su una superficie che non sembra superare di molto quella urbana di Trento.
La diffidenza
Appresi diverse cose durante il mio giro ad Altindag. Innanzitutto, che è possibile non essere aggrediti. Prendendo qualche precauzione e passeggiando con qualcuno del posto, la cosa peggiore che può succedere è l’essere circondati da nugoli di bambini incuriositi che non vanno oltre la richiesta di spiccioli. Imparai anche che la parola slum non va per forza collegata alle condizioni di povertà più estreme. Praticamente tutti gli abitanti dei gecekondu di Ankara hanno l’accesso ad acqua potabile e servizi igienici, in casa o nelle immediate vicinanze. Questo evita le situazioni limite che si possono trovare in altre periferie del mondo. Ciò non vuole dire che i gecekondu siano esenti da problemi. Le abitazioni sono spesso costruite approssimativamente, con materiali fragili e su terreni inadatti. Fu proprio la presenza di questi insediamenti che fece del terremoto di Istanbul nel 2001 una tragedia colossale. In più, una parte consistente del sostentamento degli abitanti deriva dall’economia informale a bassissimo rendimento, di solito tramite lavori occasionali nelle costruzioni e la vendita ambulante. Molte famiglie hanno redditi che permettono a stento di mangiare tutti i giorni, e l’accesso a cure mediche ed istruzione è insufficiente. La malnutrizione di molti bambini era palese.
Mi rimasero anche molti interrogativi, però. Soprattutto, le barriere linguistiche e la diffidenza mi impedirono di conoscere realmente qualcuno. E Mehmet, pur molto gentile e disponibile, si mostrò restio all’idea di farmi entrare in casa e presentarmi alla moglie. Un atteggiamento che soltanto dopo avrei attribuito al tradizionalismo presente, nelle periferie, in grado assai maggiore che non in centro città, e che ne condiziona tremendamente la vita. Così, quando Tahire Erman, sociologa che si è occupata per anni di condizioni di vita nei gecekondu, mi propose di presentarmi a qualche famiglia di sua conoscenza, feci i salti di gioia.
Questa volta, ci recammo a Mamak, un gecekondu molto più periferico di Altindag, che ci costrinse a più di due ore di dolmus (il taxi collettivo turco). Un quartiere, all’apparenza, anche molto più vivibile. Là, infatti, il governo turco aveva dato il via ai programmi di “riqualificazione edilizia”, radendo al suolo le vecchie abitazioni ad un piano per erigere solidi condomini da assegnare ai vecchi proprietari delle baracche. Dei programmi che stavano però provocando un diffuso scontento. La giustificazione di quel lungo viaggio fu la presenza, nel quartiere, di Derya, una persona “che non puoi non conoscere”.
“Le cose non vanno bene, ed è colpa nostra”
Elegante signora sulla cinquantina, Derya ci aspettava in strada, subito fuori dalla sua abitazione, dove aveva sistemato alcune sedie. Attorno a lei vi erano altre tre donne, intente a cucire, ed una ragazza. Non fu possibile entrare in casa. Il marito, disoccupato da quando rimase invalido al lavoro, si vergognava troppo della sua condizione di mantenuto dalla moglie, e si era chiuso dentro. L’accoglienza fu lo stesso molto calorosa, come da tradizione turca, con il çay (the nero) già preparato. Dopo i primi convenevoli, Derya iniziò a rispondere a raffica alle mie domande, con traduzione di Tahire. Nel corso della sua vita, Derya aveva dovuto affrontare due enormi ostacoli: vivere nelle ristrettezze economiche di un gecekondu, ed essere donna in un ambiente chiuso e tradizionalista. Aveva affrontato entrambi con molta originalità, ed era molto contenta di poterne parlare a qualcuno.
“Le cose qui non vanno bene, ed è colpa nostra. Veniamo in città, ma vogliamo continuare a pensare come quando eravamo in campagna. Gli uomini vogliono guadagnare tutto loro, perché è umiliante che sia la moglie a portare i soldi a casa. Le donne non possono lavorare, è una questione di orgoglio. Ho delle amiche che devo andare a trovare io, perché non possono neanche uscire. In campagna, noi donne raccoglievamo nei campi, davamo una mano. Qui non possiamo fare nulla, stiamo a casa a fare i lavori con le nostre figlie, e cuciamo tutto il resto del giorno, mentre i figli maschi lasciano la scuola presto perché c’è bisogno di denaro. Così non si va da nessuna parte. Ci sono tanti ragazzi che non sanno leggere e scrivere. Anche con mio marito era così. Poi, quando è diventato invalido, ha dovuto accettare che io guadagnassi qualche soldo. Solo dopo che è diventato invalido, ti sembra normale? Da allora ho cominciato ad andare in città, per fare le pulizie in casa. Prima di allora, non avevo mai visto il centro, la maggior parte delle donne di qui non lo vedono per tutta la vita. Ho conosciuto molte cose in centro, e ho scoperto che ci sono molti modi per guadagnare qualcosa. Le amiche della signora dove lavoro hanno sempre bisogno di vestiti, mentre noi passavamo tutto il giorno a cucire. Così adesso io compro la stoffa, le mie amiche fanno i vestiti e poi li vendiamo. Grazie a questo abbiamo un po’ di soldi in più. Mia figlia - dice indicando la ragazza più giovane - è potuta andare al liceo, può darsi che trovi un buon lavoro fuori. Vorrebbe fare la poliziotta”.
“Se fossi eletta...”
Il progetto di Derya, che aveva aiutato tante famiglie a migliorare la propria condizione, sembrava un caso quasi unico, nella realtà dei gecekondu. Tanto che si profilava una prospettiva del tutto eccezionale: la sua elezione a muftak, una sorta di capo-quartiere con la responsabilità di dialogare con le autorità cittadine. In proposito Derya, ancora una volta, aveva le idee ben chiare. “Se fossi eletta, cercherei di farli smettere con questa storia di costruire grandi edifici. Non è quello che ci serve: se ci dessero un po’ di soldi per sistemare le nostre case sarebbe meglio”.
Salutata Derya, la mia idea dei gecekondu era completamente cambiata. Mentre salivamo sul dolmus del ritorno, un uomo senza un braccio, un altro dei molti invalidi da lavoro, ci urlò qualcosa in turco. “Mi sta dicendo che io, donna, non dovrei prendere un dolmus verso la città” - mi spiegò Tahire, ricordandomi che la strada da fare, da quelle parti, era ancora molta.