Il fascino discreto del Partito Democratico
La storia di una chimera politica, rimasta tale per 15 anni. E ora, sarà la volta buona? E’ auspicabile, soprattutto in Trentino: fra 2 anni si vota. E anche a destra sembra organizzarsi - finalmente - un “partito dei moderati”...
Quando nel 1990, ormai 16 anni or sono, si raccolsero le firme per i referendum elettorali promossi da Mario Segni (che furono poi votati in due tranche, nel 1991 e nel 1993), pareva che l’obiettivo di trasformare la politica italiana in un sistema sostanzialmente bipartitico, con un grande partito conservatore su un lato del Parlamento ed un grande partito progressista dall’altro, come in tutte le altre democrazie occidentali, fosse dietro l’angolo.
Da allora, dalla fine della cosiddetta Prima Repubblica, il sistema politico italiano è invece rimasto sospeso in una sorta di limbo, in una permanente fase di transizione il cui punto d’approdo, col passare del tempo, è talvolta finanche andato annebbiandosi e facendosi incerto.
I tentativi succedutisi nel corso degli anni d’imprimere la definitiva svolta alla politica italiana, portandola nell’alveo delle moderne democrazie dell’alternanza, sono stati innumerevoli.
Alleanza Democratica – siamo agli inizi del 1993 – pareva dovesse essere il grande contenitore dei progressisti italiani, ma finì per diventarne l’ennesima, minuscola componente.
Poi, in vista delle elezioni politiche del 1994 (le prime tenutesi col maggioritario), le due grandi componenti della politica italiana della Prima Repubblica si organizzarono, rispettivamente, attorno ai "Popolari", eredi della DC, ed ai "Progressisti", rassemblement dell’arcipelago della sinistra. Anche in quell’occasione pareva che il sistema dei partiti si stesse assestando su una geografia nuova e definitiva, di matrice europea, vale a dire coi referenti locali del Partito Popolare Europeo sul centrodestra e quelli dell’Internazionale Socialista sul centrosinistra. Ma la reazione degli elettori alle inchieste su Tangentopoli scompaginò completamente quei disegni, facendo nascere un nuovo e vincente centrodestra attorno a Bossi, Fini e, soprattutto, Berlusconi. La "gioiosa macchina da guerra" (così l’allora segretario del PDS Occhetto, poco prima delle elezioni e sentendosi la vittoria in tasca, definì i Progressisti) finì per apparire come gli alpini nella campagna di Russia.
E tra gli ex DC si aprì un dibattito, che in parte prosegue ancor oggi, tra chi da un lato riteneva che la collocazione naturale di quel partito dovesse essere, come da tradizione europea, il centrodestra, chi dall’altro la pensava sì allo stesso modo, ma sosteneva la necessità di un accordo temporaneo con la sinistra in chiave anti-Berlusconi, e chi, infine, riteneva che gli schematismi della Guerra fredda fossero da superarsi (in Italia come in Europa) e teorizzava un rimescolamento delle carte, immaginando una configurazione all’americana del sistema italiano dei partiti, ossia con un centrosinistra simile al Partito Democratico americano e dunque non strettamente riconducibile all’Internazionale Socialista.
Da questo travaglio, per iniziativa di D’Alema, nacque l’Ulivo, che trionfò alle politiche del 1996, ma dentro il quale le contraddizioni rimasero latenti: Ulivo come alleanza meramente tattica, ossia provvisoria, in attesa dello sgonfiamento di Berlusconi, o invece come alleanza strategica, embrione di un prossimo partito unico? Si assistette, addirittura, ad un’accesa diatriba tra i fautori del "centro-sinistra", col trattino, e quelli del "centrosinistra", senza trattino. Eppure, tornando indietro con la memoria alla campagna elettorale dell’epoca, anche allora pareva che l’Ulivo dovesse trasformarsi, già all’indomani, in un unico grande partito di tutto il centrosinistra italiano, complice anche il sistema elettorale uninominale-maggioritario che aveva spinto molti parlamentari a considerarsi espressione unitaria di tutti gli elettori della coalizione.
Poi venne la Bicamerale, la caduta di Prodi, il ritorno in scena di Cossiga e le liturgie sul socialismo europeo. E l’orologio parve tornare indietro al 1992.
Berlusconi tornò al Governo, questa volta fortissimo, ed il centrosinistra precipitò nell’ennesima crisi d’identità. La nascita della Margherita, se da un lato parve concludere il dibattito tra gli ex democristiani circa la natura dell’alleanza con la sinistra, considerandola strategica, dall’altro lato finì per rivelarsi un freno alla nascita di un partito unitario, rinviata a quando (e a se) i rapporti di forza tra Margherita e Ds sarebbero risultati non penalizzanti per la componente cattolica dell’alleanza. Tuttavia, anche allora, immediatamente dopo la sonora sconfitta delle politiche del 2001, molti ritenevano che proprio la batosta elettorale avrebbe spinto i partiti del centrosinistra ad accelerare la transizione verso il Partito Democratico, ormai visto come strumento imprescindibile per tornare a vincere. Questo, ad esempio, era il clima che si respirava in Piazza Navona a Roma, quando Nanni Moretti, di fronte all’intero establishment dell’Ulivo, disse che "con questi dirigenti non vinceremo mai".
Ma quei dirigenti tornarono a vincere a spron battuto, in tutte le elezioni amministrative seguenti, ed il progetto del Partito Democratico tornò nel cassetto.
Poi ci fu il ritorno in scena di Prodi e la lista unica dell’Ulivo alle europee, e ancora una volta pareva si fosse ad un passo dall’agognato obiettivo. E invece ciò che seguì fu il passo indietro della Margherita, l’uscita dello SDI dall’Ulivo, il ritorno al sistema proporzionale ed il conseguente riaccendersi delle divisioni interne al centrosinistra, incoraggiate dal diffuso clima di ottimismo circa le imminenti elezioni politiche del 2006.
Poi, di nuovo, il successo delle primarie del centrosinistra spinse la Margherita a cambiare idea e ad appoggiare il progetto del Partito Democratico, ma a quel punto furono i DS a proclamare il "contrordine compagni".
Vennero infine le elezioni politiche dello scorso aprile, con l’Unione a vincere per un soffio sulla Camera, dove Margherita e DS si erano presentati uniti con la lista dell’Ulivo, e a perdere al Senato, dove i due partiti si erano presentati separatamente. E dalla lettura di quel risultato pareva che il Partito Democratico dovesse nascere entro pochi mesi.
Ma visti i precedenti, non ci si sorprenderebbe se ora qualcuno dicesse che quella era solo una lettura "a caldo" del risultato elettorale, poco approfondita e quindi poco utile.
L’intera cronistoria, vista tutta assieme, appare surreale.
Sembra di essere dentro un film di Luis Buñuel. Ne "Il fascino discreto della borghesia", ad esempio, si racconta di sei esponenti della "crema" francese che si ritrovano per cenare assieme, ma a causa del susseguirsi di una serie di situazioni sempre più surreali i convenuti non riescono mai ad iniziare a consumare il loro pasto. La differenza è che quel film faceva sbellicare dalle risate, mentre qui c’è ben poco da ridere.
Eppure è innegabile che questa volta, dopo le primarie di Prodi e dopo la sconfitta evitata per un soffio alle ultime elezioni, dopo la costituzione dei gruppi unici dell’Ulivo alla Camera e al Senato e dopo le convergenti dichiarazioni di Rutelli e di Fassino, un’ennesima fumata nera avrebbe l’effetto di far sprofondare il popolo dell’Ulivo nello sconforto e, forse, di scatenare una rivolta.
In politica la pazienza è un obbligo, ma in quindici anni si bruciano le speranze di un’intera nazione.
Perché il problema non riguarda solo i militanti ed i simpatizzanti dell’uno o dell’altro schieramento: avere un sistema dei partiti semplice, che ruota attorno a due grossi partiti che competono per il governo, significa mettere la politica nelle condizioni di operare, di assumere decisioni in tempi ragionevoli, di espandere la partecipazione e la propria democrazia interna e di far così emergere più efficacemente le idee.
Il Trentino avrebbe la necessità e la possibilità di muoversi per conto proprio. Perché tra due anni si vota per le provinciali, e i risultati di queste elezioni politiche dovrebbero destare qualche preoccupazione nei partiti dell’attuale maggioranza di piazza Dante. E perché la tradizione di autogoverno, lo status di autonomia speciale e la piccola dimensione di questo territorio sono tutti elementi che consentirebbero d’impostare qui un’agenda ed un percorso autonomi.
Convogliare dentro un unico partito le maggiori componenti dell’alleanza dellaiana dovrebbe avere l’effetto di riaprire un dibattito programmatico oggi inesistente, dando slancio a un governo provinciale oggi in affanno; e giungere alle provinciali del 2008 in un clima di fiducia.
Un obiettivo, questo, che diverrebbe ancor più indispensabile ed urgente qualora nel centrodestra trentino si facesse davvero strada l’idea di costituire un "partito dei moderati" territoriale ed autonomista, non direttamente collegato con Forza Italia e con la CDL nazionali, sorretto - finalmente - da elementi programmatici veri. E magari guidato da un "volto nuovo" come Marcello Carli.
A quel punto, a differenza che in passato, Dellai nel 2008 si troverebbe di fronte, per la prima volta, un avversario davvero temibile. E si potrebbe avere un confronto vero, su ipotesi politiche raffrontabili.
A quest’argomento dedicheremo spazio nei prossimi numeri, con interviste ed approfondimenti.