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Settimane americane

Mesi movimentati per il Governo degli Stati Uniti che si trova ad affrontare una nuova serie di problemi, scandali, difficoltà.

Francesca Agostini, Marco Cova

Come quella di molti americani, anche la nostra auto in questi giorni è ferma in parcheggio, più grazie alla vicinanza del campus e ad una serie di belle giornate che per colpa dei nuovi record del gas (benzina). Che però qui destano non poche preoccupazioni e riflessioni.

George W. Bush con Porter Gross.

A prima vista si direbbe per nulla: i tanto vituperati 3 dollari al gallone fanno circa 0.7 euro al litro. Non credo di aver mai visto la benzina a questi livelli di prezzo da noi. Però, ci sono alcuni distinguo. Tre anni fa, i prezzi raramente superavano gli 1.7-1.8 dollari al gallone. Oggi, non siamo al raddoppio, ma poco ci manca.

In secondo luogo, anni di prezzi bassi hanno favorito lo sviluppo di un certo tipo di stile di vita e cambiare improvvisamente non è facile. Banalmente, se andare e tornare in auto da downtown costa 3$, forse qualcuno deve iniziare a pianificare (minimizzare) i suoi spostamenti.

L’americano medio percorre un sacco di strada in auto. E non solo perché pigro; ma anche perché tutto è distante. Vuoi fare la spesa? Devi prendere l’auto. Vuoi andare al lavoro? Devi prendere l’auto. Vuoi... e così via. I servizi pubblici sono scarsi e poco competitivi.
Inoltre, se la corsa all’auto smodatamente grande ha avuto un indubbio successo, non lo stesso si può dire per quella con motore più efficiente. Secondo alcune statistiche, l’efficienza del parco macchine prodotto in questi ultimi anni è pari a quella di 20 anni fa. Morale: 25 mpg in autostrada (10 km con un litro) vengono ancora spacciati come un ottimo risultato.

Sul lungo periodo, forse questo spingerà a fare ricerca seria sulle energie rinnovabili o alternative al petrolio. Nel breve periodo, invece, ci si consola pensando che i prezzi da queste parti, quando scendono, scendono rapidamente.

Oltre che sul fronte estero, l’amministrazione Bush si trova in difficoltà anche a proposito di alcune riforme proposte sull’immigrazione. "Un giorno senza immigranti" o "The great american boycott", a seconda dell’animosità del propugnante, erano gli slogan delle proteste del primo maggio. Il motivo? Non certo il labor day - che da queste parti si festeggia all’inizio di settembre - ma le recenti proposte legislative in materia di immigrazione.

Il tema è intricatissimo, per numeri, storia, leggi, economia, affetti. I numeri: 12 milioni di immigranti undocumented (senza documenti: illegali); oltre la metà impiegata, che fa circa il 5% della forza lavoro attiva; alcuni settori economici completamente dipendenti dagli illegali: il 25% del settore agricolo, quasi il 30% delle costruzioni, cifre simili per il settore della lavorazione del cibo; 14 milioni di famiglie con almeno un componente illegale.

Le comunità: qui in California l’immigrato per definizione è il messicano, che ha portato le sue feste (il 5 maggio), la sua cucina, la sua religione (cattolica), e la sua lingua (spagnola) che mischiata a quella degli autoctoni ha dato vita allo spanglish. E che forse per la prima volta nella storia americana può uscire dai suoi quartieri e continuare a parlare, fare affari, vivere nella propria lingua: ogni servizio, dall’amministrazione dell’Università, alla banca, all’assicurazione della macchina, tutto esiste in versione spagnola. Con tanti saluti all’idea del melting pot, ma anche alla realtà delle enclaves etniche, le Little Italy, le Chinatown...

Le proposte di legge sono sostanzialmente tre. Una, ferma al Senato, prevede che gli undocumented ottengano stato legale lavorando sei anni, pagando una multa, sottoponendosi a background check e imparando l’Inglese. Cittadinanza guadagnata, la definiscono i sostenitori; amnistia, dicono i critici, distribuita su sei anni.

Una proposta, di natura opposta, in stallo alla Camera, propone: immigrazione illegale elevata allo stato di felony (cioè, crimine serio) e costruzione di un muro sul confine messicano, in aggiunta ai pezzi già esistenti. Questo è il motivo immediato delle proteste di questi giorni.

L’ultima raccomandazione, infine, è di matrice presidenziale e si attesta su una linea moderata con un occhio all’economia e uno all’elettorato di origine messicana: niente punizioni, un programma di visti per lavoratori, possibilità di mettersi in coda per ottenere la cittadinanza. Ma, al momento, non ha grande capitale politico da spendere. Di qui, le sfilate e gli scioperi del mese passato, il boicottaggio dagli acquisti e delle attività economiche dell’1 maggio, le proclamazioni delle settimane degli immigrati. Il risultato, per ora, sono centinaia di migliaia di persone in piazza e sfilate pacifiche, con gran sventolio di bandiere americane. Da queste parti non vedevano qualcosa del genere dai tempi del Vietnam.

Il Bush in calo - anzi in caduta libera - di consensi prova a rimettersi in carreggiata rinnovando il suo staff. A farne le spese sono una serie di personaggi di primo e secondo piano. Andrew Card è stato uno dei primi silurati: dall’esterno, piuttosto anonimo capo dello staff; famoso, almeno qui, per essere stato quello che la mattina dell’11 settembre avvisò Bush degli attacchi terroristici.

Via pure Karl Rove, uno degli uomini ombra dell’amministrazione, consigliere politico, stratega elettorale, sempre nelle retrovie ma costantemente all’orecchio del presidente; lascerà il suo compito di policy development.

George W. Bush con Scott McLellan.

Tagliato anche Scott McClellan, il portavoce, che rimarrà celebre per alcuni "terzo grado" subiti in conferenza stampa dai giornalisti, che, qui - alcuni almeno - fanno il loro dovere e non risparmiano le domande cattive. Dice che ora avrà una vita meno stressante e non abbiamo difficoltà a credergli.

Ultimo in ordine ditempo è Porter Gross, (ex ormai) capo della CIA, incaricato di guidare l’agenzia nella transizione del dopo 11 settembre. Lascia, pare, in disaccordo con Negroponte, lo zar dell’intelligence americana, che ha preteso lo spostamento di alcune funzioni della CIA sotto il proprio diretto controllo. E, come è praticamente sempre successo negli ultimi tempi, la scelta di Bush per il successore - Hayden, generale dell’Air Force - ha scatenato una marea di polemiche, in perfetto stile bipartisan: in questo caso, sull’opportunità che sia un militare a guidare un’agenzia civile e sulla sua visione non esattamente garantista del diritto alla privacy.

A margine di tutto ciò si è tenuta la consueta cena dei corrispondenti della Casa Bianca, presenti Bush, la moglie e l’imitatore di Bush. E, punto alto della serata, Colbert, un comico della TV americana, con battute spietate su tutta l’amministrazione.

Alcuni passaggi meritano la trascrizione.

Sull’Iraq: "I believe the government that governs best is the government that governs least. And by these standards, we have set up a fabulous government in Iraq".(Io ritengo che il miglior governo sia quello che governa meno. Stando a questa definizione ,noi abbiamo creato un favoloso governo in Iraq).

Sui cambi di staffer alla Casa Bianca: "So the White House has personnel changes. Then you write, "Oh, they’re just rearranging the deck chairs on the Titanic." First of all, that is a terrible metaphor. This administration is not sinking. This administration is soaring. If anything, they are rearranging the deck chairs on the Hindenburg!" (La Casa Bianca ha rinnovato lo staff. E voi [giornalisti] giù a scrivere "Stanno solo risistemando le sdraio sul ponte del Titanic". Bene, è una pessima metafora. Questa amministrazione non sta affondando. Questa amministrazione sta volando. Se proprio volete la metafora, le sdraio le stanno risistemando sull’Hindenburg [il dirigibile tedesco che andò a fuoco nel New Jersey])

“Non avrò pace finché non riuscirò a far calare questi numeri” “Signore, quelli sono i vostri indici di gradimento”

Sull’esportazione della democrazia: "I believe in democracy. I believe democracy is our greatest export. At least until China figures out a way to stamp it out of plastic for three cents a unit". (Credo nella democrazia. Credo che la democrazia sia il nostro migliore prodotto d’esportazione. Almeno fino a che la Cina scopre un modo per farla di plastica al prezzo di tre cent l’uno).

Sul calo di consensi: "Now, I know there are some polls out there saying this man has a 32% approval rating. But guys like us, we don’t pay attention to the polls. We know that polls are just a collection of statistics that reflect what people are thinking in "reality." And reality has a well-known liberal bias. Sir, pay no attention to the people who say the glass is half empty, because 32% means it’s 2/3 empty. There’s still some liquid in that glass is my point, but I wouldn’t drink it. The last third is usually backwash". (Dunque, io so che ci sono alcuni sondaggi che girano che dicono che quest’uomo ha un indice di popolarità del 32%. Ma i tipi come noi non fanno attenzione ai sondaggi. Noi sappiamo che i sondaggi sono solo una collezione di statistiche che riflettono quello che le persone pensano nella cosiddetta realtà. Ed è ben noto che questa realtà è piena di pregiudizi liberali. Sir, non dia ascolto a chi dice che il bicchiere è mezzo vuoto, perchè il 32% significa che è 2/3 vuoto. Il mio punto è: c’è ancora del liquido in quel bicchiere ma io non lo berrei. L’ultimo terzo solitamente è il riflusso.)

E sullo sfondo, ormai incombenti, le elezioni di novembre