Tutto il mondo è “Campiello”
Solida versione del Teatro Fondamenta Nuove dell'esile eppur fortunato lavoro di Goldoni.
Fin dall’inizio, "Il Campiello" ebbe un grande successo a Venezia, di cui offriva un fedele ritratto, ma anche a Milano, lontana soprattutto per motivi storico-culturali. Cos’ha dunque di tanto speciale? "L’azione è semplicissima, l’intreccio è di poco impegno, e la peripezia non è interessante"… Nella prefazione "L’autore a chi legge", lo stesso Goldoni mostrava sincero stupore, o falsa modestia. In fondo, se fosse per i soliti ingredienti – gelosie, litigi, equivoci (pochi, in verità) – la pièce apparirebbe persino sottotono. Eppure, nel vederla, ne percepiamo subito la forza, la leggerezza del "morbìn" che è solo la facciata brillante e spensierata della vita, quella che dobbiamo affrontare, tutti, prima e dopo il Carnevale. A colpire veneziani e milanesi, come noi oggi, fu probabilmente il riconoscersi nel tema centrale: la fortuna, che elargisce favori e rovesci come capita, senza avvertire, ma sempre con uno sguardo benevolo – non poi così cieco – verso il popolo.
La sorte è protagonista invisibile nel gioco del lotto, dove, non a caso, compaiono simboli come il Sole, la Luna, il Diavolo, la Morte. Poi, nei problemi quotidiani, matrimoni d’amore e d’interesse (le due cose vanno davvero a braccetto nel "Campiello") che potrebbero risolvere magagne d’ogni tipo e, come la pioggia di Giovanna d’Arco, "tardano a venire". Non manca la cattiva gestione degli affari, vista qui in modo serio con tutte le conseguenze su nome, casato, esistenza stessa… Il Cavaliere è una figura bohémienne sulle prime, ma rivela ben presto un lato nascosto e quasi malinconico, mai però rassegnato.
Tutto questo è reso alla perfezione dalla regia solida e elegante di Giuseppe Emiliani, e dal cast in buona forma senza eccezioni. Azzeccati anche i costumi di Stefano Nicolao. Tuttavia, un merito particolare va ad Emanuele Luzzati: le sue scene fondono architetture dipinte a balconi ed altane "reali", ma pur sempre ricostruiti. Il gioco di linee crea il miraggio di due dimensioni che proseguono, si trasformano in tre, e viceversa. Ciò senza ricorrere a tecniche complesse come l’anamorfosi – un tocco semplice e immediato, da maestro. Non solo: la compagnia Teatro Fondamenta Nuove usa con intelligenza ogni spazio consentito: palcoscenico, platea, golfo mistico, persino il "vuoto" (il Cavaliere, che dovremmo immaginare affacciato all’arcata di una loggia, è sospeso a mezz’aria per tutto il primo tempo).
Colpisce, infine, la cadenza ritmica del testo: come dice Goldoni, non "i soliti Martelliani, ma versi liberi di sette e di undici piedi, rimati e non rimati a piacere, secondo l’uso dei drammi che si chiamano musicali". Segno che l’autore sapeva benissimo di aver scritto una commedia sui generis, destinata a diversa… "fortuna".