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QT n. 18, 29 ottobre 2005 Servizi

L’Arcivescovile a Rovereto. Auspice Adelpreto?

Il futuro della scuola trentina parte anche dalla riabilitazione di un vescovo ucciso in battaglia, santo forse fasullo, sicuramente emblema dell'invadenza del clero.

"La giornata di apertura di ieri è coincisa con una ricorrenza significativa: la festa di S. Adelpreto, vescovo di Trento martirizzato nel 1170. Un patrono della nostra arcidiocesi. Le sue spoglie sono conservate in Duomo assieme a quelle di S. Vigilio, ma in S. Rocco abbiamo una antica lapide che lo ricorda. Una positiva casualità".

Il vescovo Adelpreto.

A parlare così è il rettore dell’Arcivescovile, monsignor Giacometti, cioè l’uomo che presiede alla nuova fase di storia del convento roveretano, ora residenza studentesca e, dal prossimo anno, liceo linguistico di impianto modernissimo e di grandi ambizioni. L’intervista a Cristiana Martinelli del Trentino è vecchia più di un mese (21 settembre). Se la riprendiamo a tanta distanza di tempo è perché ci ha suscitato un’ inquietudine non ancora sopita. Siamo abituati a prendere sul serio gli uomini di Chiesa, che conoscono meglio di tutti il valore dei simboli e dei riti. Se il rettore dell’Arcivescovile ha ritenuto di far risaltare la coincidenza dell’apertura del nuovo collegio con la data di una finora mal nota "festa di Adelpreto", lo ha fatto certamente in piena consapevolezza delle implicazioni, sapendo di riattivare uno scontro simbolico antico e di straordinaria portata.

Qualche lettore si chiederà chi sia questo Adelpreto e che cosa debba importare di lui a noi che viviamo a più di otto secoli di distanza dal suo evocato martirio. E’ vero che si tratta di una storia remota e per molti aspetti oscura: ma è vero anche che intorno alla sua interpretazione si scatenò a suo tempo un conflitto il cui significato ancora ci tocca.

Le lapidi ispirate alla vicenda, presso S. Rocco, sono due. Una, più antica, è infissa sopra una cappelletta settecentesca, originariamente dedicata al presunto santo, ora a S. Antonio. L’altra, che è più facile notare per chi entra nella chiesa, sta sul muro del sagrato: sotto una mitria ed una croce l’iscrizione in latino ricorda che qui sarebbe caduto ferito e morto il santo Adelpreto, "martyr et episcopus tridentinus", nell’anno 1161.

Lastra di rame dorato raffigurante lo scontro armato tra il vescovo Adelpreto e Aldrighetto di Castelbarco (1172).

E’ proprio dall’interpretazione di questa lapide che prende le mosse il testo della "Lettera" di Girolamo Tartarotti, un saggio critico nel quale lo studioso roveretano ingaggia una tagliente polemica con la tradizione in essa riassunta. Quella lapide non è affatto antica ma recente, argomenta Tartarotti che scrive nel 1752, e contiene tanti errori e falsità "che il marmo, sopra cui è scolpita, assai più utile diverrebbe in altra opera impiegandosi". Sbagliata è quella data di morte (che ora gli studiosi indicano infatti nel 1172). Sbagliato s’impunta a considerare perfino il nome, che dovrebbe essere piuttosto Alberto.

Ma quel che più conta è la radicale critica di quegli epiteti di santo e di martire, "quando per Santo s’intenda persona canonizzata, o almeno della cui santità s’abbiano autentici testimoni, e fondamenti: e quando per Martire s’intenda persona che per la fede di Cristo, o altra virtù dalla fede prescritta, abbia volontariamente sborsato il sangue".

Il germanico Alberto/Adelpreto era morto per un colpo di lancia vibratogli da un Castelbarco, Aldrighetto, nel vivo di uno scontro che ora definiremmo politico e militare, piuttosto che religioso, mentre si adoperava per vincere una resistenza feudale al suo dominio principesco. "Questo era un morire glorioso negli occhi del mondo: ma non già (massimamente per un Vescovo) negli occhi di Dio. Era un morire in un’azione contraria alla disciplina ecclesiastica, e tanto è lontano, che a ricever la morte si fosse egli disposto, che anzi doveva piuttosto esser disposto a darla, se riuscito gli fosse; per la qual via troppo è difficile, che al martirio egli dovesse arrivare".

L'illuminista roveretano Girolamo Tartarotti.

Tartarotti metteva in campo molti altri argomenti, sostenendo che la tradizione della santità del vescovo ucciso risultava tardiva e debole anche dal punto di vista del culto che gli venne tributato, la cui fortuna era stata nei secoli successivi assai discontinua.

La replica della Chiesa trentina fu vivace. Gli eruditi messi all’opera per contrastare la critica tartarottiana indagarono montagne di carte e misero in luce molti nuovi dati nel dettaglio, ma non risposero alla domanda fondamentale: che santo e che martire era mai questo?

Tartarotti a sua volta rilanciò con una seconda "Lettera", molto più voluminosa e feroce della prima (1758). Un dibattito che poteva apparire solo filologico si tramutò a questo punto in scontro aperto. Il vescovo di Trento fece bruciare in piazza lo sgradito libello (1761).

Morto poco tempo dopo l’appassionato studioso, il Magistrato di Rovereto (diremmo ora il Comune) decise che fosse sepolto nella chiesa di S. Marco e che in suo onore fosse ivi eretto un monumento, la cui realizzazione fu affidata allo scultore veronese Tomezzoli. Il gesto esasperò il vescovo, che comminò a Rovereto l’ interdetto dalle funzioni religiose, vale a dire una sanzione straordinariamente pesante e dolorosa. Il governo cittadino si oppose a sua volta, ricorrendo all’Imperatrice Maria Teresa, che riconobbe le sue ragioni, ma propose infine un onorevole compromesso: fosse ricordato Tartarotti nella chiesa con una lapide, mentre il contestato monumento, pro bono pacis, fosse collocato piuttosto nel Palazzo Pretorio, vale a dire in Municipio. E lì in effetti rimase, nella sala consigliare, fino al 1880, quando fu spostato nell’atrio del Palazzo dell’Istruzione su iniziativa del Museo Civico, nell’intento di trasformare quello spazio in una sorta di panteon cittadino.

La polemica tartarottiana, nonostante tutte le repliche, lasciò il segno: e non è certo casuale che il culto del parente del Barbarossa sia andato deperendo, fino a quando il suo nome è stato omesso, con un gesto di consapevole oblio, dal calendario diocesano.

Così per lo meno a partire dal 1913: il cenno di don Giacometti ad una sua "festa" il 20 settembre, altra data simbolica per la memoria laica, fa pensare ad una riammissione (avvenuta o ventilata) di cui ci confessiamo non informati.

In un importante saggio del 1977 Iginio Rogger, sulla base di documenti emersi di recente, ha argomentato una maggiore solidità della tradizione rispetto a quanto risultasse al Tartarotti e rivendicato una soluzione più formale della lunga vicenda, da un punto di vista liturgico. Con tutto il necessario rispetto per una materia che in nulla ci appartiene, ci interroghiamo tuttavia sul significato dei cenni di don Giacometti alla "positiva coincidenza" tra apertura del collegio arcivescovile e riesumazione di quel contrastato culto.

Pur trattenendo nella penna la deplorevole (ma inevitabile) facezia sul ripresentarsi oggi a S. Rocco di militi (arci)vescovili calati da Trento ben provveduti e ben armati, ci chiediamo anche se ci sia nella città adeguata consapevolezza della novità non priva di incognite che il nuovo liceo privato immette in un tessuto scolastico locale in forte trasformazione. L’agguerrito concorrente guarda il nostro vecchio liceo dall’altra parte dello stesso viale e gli lancia un’aperta sfida, forte com’è in virtù di finanziamenti provinciali massicci e di una maggiore flessibilità nel reclutamento dei docenti e nella stessa organizzazione del piano di studi. Nelle intenzioni di una parte del governo provinciale, esposte con tutta chiarezza al comune di Rovereto, al nuovo arrivato si dovrebbero addirittura subordinare, nell’indirizzo linguistico, i nostri istituti più antichi e prestigiosi.

Una mobilitazione politica e culturale che scongiuri forzature di parte e assicuri un pieno sostegno alla scuola pubblica appare urgente e indispensabile.