Università: molto studio, poca riflessione
Si studia troppo, con affanno, meccanicamente, non si ha più tempo per crescere sperimentando e magari sbagliando. Le critiche degli studenti alla riforma: non è più l’Università, è un Liceo.
Come sono cambiati i tempi degli studenti? Ovvero, dove sono andati a finire quegli studenti che hanno sempre tempo per ogni cosa, per impegnarsi in associazioni, in gruppi di discussione, partecipare a seminari e convegni eccetera? Dove quei giovani che possono permettersi di tentare di applicare quanto studiano nelle aule universitarie alla vita di tutti i giorni, e quindi combattono per ideali, utopie, ma comunque si muovono e cercano un mondo migliore, certi che non abitiamo affatto il migliore dei mondi possibili, ma soltanto nel più comodo per le nostre teste e tasche?
Nel ‘98 QT aveva affrontato il tema della quantità/qualità dello studio (n° 11 del 30 maggio) sotto il titolo All'università si studia troppo. Confrontando la situazione in Italia e nel resto d’Europa, dove si studiava indubbiamente meno, forse meglio, ci si laureava prima, con una preparazione diversa, meno raffinata. Oggi (vedi anche l’articolo successivo “Hanno ragione: la riforma è da cambiare” ) ci si è adeguati all’Europa. In parte. E con quali risultati?
Per rispondere a questa domanda siamo andati a vedere più da vicino come questa riforma universitaria ha cambiato - magari di poco sulla carta, ma molto nella vita - usi e costumi delle università e degli studenti.
Una grossa rivoluzione è il credito. Io, matricola, entro all’università e mi vedo perciò appioppare un debito nei suoi confronti che, una volta saldato, mi consentirà di sentirmi laureato e preparato. Già la predisposizione allo studio viene minacciata: il mio ingresso in università non è un percorso di formazione, ma un debito che devo saldare. Questa rivoluzione mi costringe a una contabilizzazione degli studi inaudita per l’università italiana. Gli studenti sono sempre più alle prese con conti che snaturano la preziosità di un corso universitario e del corrispondente esame per ridurlo a una quantità, opinabilmente assegnata: "Mi è capitato di fare esami da quattro crediti che sembrano da otto e viceversa" - ci dice Maria, studentessa di sociologia.
Ma cos’è questo credito? Il Credito Formativo è una unità di misurazione dello studio e dell’impegno dello studente. Esso corrisponde - per decisione ministeriale - a venticinque ore di studio. Ogni ateneo poi dovrà dividere queste venticinque ore in una proporzione variabile (ma non più del cinquanta per cento) di studio personale o attività individuale e attività in aula. Poniamo che un’università decida di dividere esattamente a metà le ore/credito (cosa abbastanza improbabile, per l’elevato numero di ore da passare in aula e la scarsità di docenti in Italia...): per ottenere la laurea di primo livello - quella triennale - è necessario "accumulare" 180 crediti ossia 2.250 ore di studio individuale e 2.250 di attività in aula.
Formalmente le cose sono migliorate, quindi. Se, ante riforma, servivano 1.500-1.600 ore di lezioni per la laurea (nel caso - pur frequente - di 26 annualità di 60 ore ciascuna), ora l’attività in aula sembra essere aumentata, lasciando così spazio a seminari, esercitazioni e a tutte quelle cose di cui l’università italiana ha sempre difettato. E infatti molte facoltà hanno istituito seminari e attività collaterali che cercano di colmare quel gap tra teoria e prassi che ha sempre afflitto i nostri laureati. Una boccata di ossigeno, quindi, specialmente per le facoltà scientifiche. Queste, infatti, hanno beneficiato maggiormente della riforma, vedendo riconosciuti e capitalizzati tutti quegli sforzi e quelle ore che gli studenti dovevano passare in laboratori ed esercitazioni: "Le ore di laboratorio sono finalmente contate per quello che sono, ossia formazione pratica" - dice Luca, studente di ingegneria.
Ma altrettanto non si può dire delle facoltà cosiddette umanistiche. Queste, infatti, si sono viste costrette a una moltiplicazione dei percorsi di laurea (un esempio su tutti: il corso di laurea in Storia si è dovuto dividere in cinque percorsi diversi. L’offerta didattica è quindi quintuplicata, mentre il numero degli studenti per corso di laurea è 1/5 rispetto alla situazione ante-riforma. O meglio, gli studenti sono rimasti gli stessi, sono i corsi che si sono divisi, con una conseguente frammentazione del sapere e incremento degli sforzi dei docenti.
E neppure gli studenti sono contenti: le tabelle ministeriali sono talmente rigide e variegate che uno studente - per dire - di filosofia si vede obbligato a sostenere l’esame di psicologia e deve invece scegliere se sostenere l’esame di filosofia antica oppure quello di filosofia medievale; e sarà impossibilitato a farli entrambi. Alice, studentessa di Filosofia, si dice "costretta" a fare un esame appunto di pedagogia sacrificandone uno di filosofia, materia che ama ovviamente moltissimo.
In conclusione: un giudizio positivo, per questo aumento dell’attività in aula, per le facoltà scientifiche, mentre in quelle umanistiche siamo di fronte a un pasticcio, forse rimediabile, in parte, con una maggior elasticità delle tabelle, mentre rimane il dubbio di fondo, su una concezione del sapere troppo frammentata e condizionata dalle richieste del momento.
Ma andiamo ad analizzare almeno altre due cose: l’attività di studio personale, o attività individuale, e la durata dei corsi di studio. La normativa di riferimento (D.M. 509/1999) è molto chiara per quanto riguarda la durata del corso degli studi, molto oscura invece sullo studio individuale. La durata dei corsi è triennale per la laurea di primo livello e biennale per quella specialistica e non è previsto nessun meccanismo di passaggio tra la prima e la seconda. Risultato: se "sforo" di qualche mese nel laurearmi al primo livello, perdo un anno, perché nel frattempo i corsi per la laurea specialistica sono cominciati, e le iscrizioni chiuse (il termine ultimo è novembre). Oppure comincio a frequentare i corsi della specialistica mentre sto ancora completando la prima laurea e, magari, scrivendo la tesi. Ogni ateneo, conscio del problema, ha tentato di porre dei tamponi alla questione, ma la situazione è comunque pesante.
C’è anzitutto un problema di tempo: gli studenti hanno scadenze a breve termine e non possono pensare ad un progetto di studio di ampio respiro. Non solo il percorso è spezzato alla chiusura del triennio, ma i corsi sono piuttosto delle corse, al grido di "chi si ferma è perduto". Qualora infatti uno studente venga bocciato ad un esame o salti una sessione, "perde il treno", i problemi cominciano ad accumularsi e sembrano irrisolvibili: "Saltare un esame diventa veramente una sfida al destino: one shot, one kill è la morale di questa riforma" - ci dice Nicolò, di Giurisprudenza. I "bravi" procedono macinando un esame sull’altro, mentre i meno "bravi" stanno sempre più indietro, con ritardi che si accumulano con poche possibilità di smaltimento.
Un’altra questione controversa riguarda le ore di cosiddetto studio individuale: le ore passate sui libri o a scrivere tesine, relazioni o analoghe attività. Il problema è, come in ogni caso in cui si cerchi di quantificare un’opera intellettuale, di misurabilità. Quante pagine bisogna leggere per impiegare dieci, quindici ore di studio? E quante righe bisogna scrivere per "fare" lo stesso tempo?
La fantasia, qui, si è sbizzarrita. E le case editrici pure: libri più sottili e sfrondati di tutto quanto sia superfluo per una laurea triennale, edizioni autorevoli ridotte a bignamini per uno studio attento a non sforare le ore previste dai crediti formativi. Ma c’è anche chi, professore volenteroso, si adopera a fotocopiare gli articoli/commi/capitoli più interessanti da libri autorevoli per propinare poi agli studenti una bella macedonia del meglio, un Reader’s Digest.
Tentando di quantificare e qualificare l’attività intellettuale, cercando di essere uniformi ed omogenei, oggettivi nella qualificazione dello studio, ci si è ridotti a proporre ai giovani universitari un percorso di studi strozzato dentro termini e cicli difficilmente modulabili, con tempistiche molto strette, contabilizzato e quindi tendenzialmente chiuso alla curiosità ("L’altro giorno ho seguito un seminario per puro caso, perché mi hanno detto che mi avrebbe fruttato un credito" - confida Carolina, di Economia), mortificante nella forma (i crediti sono quasi tutti vincolati, per cui la possibilità di prendere corsi diversi dal proprio percorso di studi è limitatissima) e nelle esperienze (le aule diventano delle classi liceali, dove tutti si conoscono e non conoscono altri che loro), irreggimentato in un calcolo ragionieristico di quanti crediti mi mancano e quanti crediti mi dà o non mi dà questo corso.
Un triplice ordine di considerazioni, quindi. Questa riforma è ancora in transizione. Ma non è il passaggio da una tradizione solida ad un cambiamento dovuto e voluto, bensì da una situazione sempre percepita emergenziale ad un’altra situazione critica e pure poco condivisa. Inoltre la riforma ha creato conseguenze di ordine psicologico e pedagogico: mentre gli studenti delle facoltà scientifiche sono stati privilegiati nell’ottica di esaltare le scienze cosiddette oggettive, gli studenti delle facoltà umanistiche sono mortificati in schemi assolutamente inadatti che non fanno altro che chiudere la porta alla curiosità, alla ricerca e, perché no, anche all’errore.
Questo tentativo di chiudere gli spazi di interesse personale, di fantasia, di possibilità, è chiedere agli studenti di prendere contatto con una realtà viziata, con un mondo indecidibile perché già deciso da altri, con una realtà strutturata nella quale gli studenti non possono far altro che intervenire in termini di obbedienza ad uno schema prefissato. Il risultato non potrà che essere la formazione non di persone, ma di personale; o, peggio ancora, di persone che non sanno dove andare, attendendo indicazioni dall’alto. Il rischio è allora che i futuri lavoratori facciano senza troppo pensare, senza cercare la soluzione migliore e che agiscano secondo uno schema prefissato spacciato per vero.
La nuova università avrà finalmente risposto ad una delle sue esigenze politicamente decise: quella di controllare la cultura uccidendo così ogni prerogativa di autentica ricerca.