Il Filmfestival della montagna
Maurizio Nichetti, neodirettore della rassegna, ha impresso una svolta netta: positiva e riuscita (a parte qualche mugugno degli alpinisti più duri e puri).
Quanti sono gli amanti della montagna e del cinema interessati alla conquista delle vette sotto lo stretto profilo tecnico-alpinistico? Sicuramente tanti, ma la sensazione è che a contenerli possano bastare le varie salette delle sezioni SAT. Molto più numerosi, ci pare, sono gli appassionati di un cinema fatto di ambienti e di paesaggi, i curiosi, gli impegnati, le persone che hanno interesse a vedere su di uno schermo porzioni remote dell’orbe terracqueo. A nostro giudizio, il "Trento Filmfestival-Montagna esplorazione avventura" ha fatto bene quest’anno a correre il rischio di privilegiare, all’apparenza, la seconda categoria di spettatori sulla prima, mettendo l’interesse "cinematografico" al di sopra di quello specialistico o documentativo. Non ci sembra che le polemiche stuzzicate dal "Trentino" fra la cricca degli alpinisti sulla mancanza di film "per loro" abbiano effettiva ragion d’essere. Un festival internazionale, anche proprio per numeriche ragioni di pubblico, deve necessariamente attrarre l’attenzione di un’audience la più ampia possibile.
Il nuovo direttore artistico Maurizio Nichetti ha dunque saputo dare al Festival una svolta piuttosto netta, sprovincializzandolo e ringiovanendolo. Con la sua riconoscibile figura, era presente alle proiezioni, introduceva con brio i film, faceva, al limite, anche colore in giro per la città. Insomma, quest’uomo di spettacolo è subito riuscito a costringere il Filmfestival a superare la patina di diffidenza burbero-montanara che francamente lo aveva avvolto. C’è quindi da essere soddisfatti.
L’inaugurazione, al Centro Santa Chiara, ha funzionato bene. Non abbiamo visto spesso in Trentino una vernice dotata di un ritmo registico così spigliato e davvero capace di intrattenere il pubblico invece di annoiarlo in attesa della proiezione. Maurizio Nichetti (che conosce i tempi in assoluto più difficili da indovinare: quelli comici) ha regolamentato alla perfezione la serata: concesso un-minuto-uno al presidente del Filmfestival Italo Zandonella Callegher, non si è vergognato a lanciare la pubblicità dell’ENEL (che per inciso si porta sulle sue spalle il peso opprimente di aver reso un refrain quasi fastidioso "Sunday Morning" dei Velvet Underground). Poi ha chiamato sul palco un paio di attori a raccontare, teatralizzata, la storia della spedizione di Sir Ernest Shakleton, definita da Reinhold Messner la più grande avventura della storia dell’umanità.
"South" (Frank Hurley, Gran Bretagna, 1919), lanciato da quest’ottima presentazione, si è dimostrato assolutamente all’altezza di una serata inaugurale. La storia della spedizione al Polo Sud incastrata per due anni fra i ghiacci e isolata dal mondo ha un fascino tale da far succhiare voracemente le immagini girate dal cineoperatore di bordo. Rimane un documento modernissimo sulla gestione umana dell’emergenza, sull’isolamento, sulla tenacia, sulla fortuna. Il film era accompagnato dal vivo dall’orchestra Sinfonica Tolkieniana, di recente formazione. Il contributo musicale si è rivelato tuttavia abbastanza ininfluente: messo in secondo piano dalla forza delle immagini, ha saputo solo a tratti conquistarsi una sua posizione di preminenza.
Va detto che il pubblico trentino non ha recepito immediatamente le novità nella programmazione del Filmfestival. Un po’ c’entra la nostra famigerata pigrizia culturale, un po’ la diffidenza accumulata verso il Festival detto "della montagna" da parte dei non-tecnici (abbiamo constatato in vari casi che persone in genere interessate a valide proposte culturali non avevano neppure letto il programma).
Le serate-retrospettiva (vecchi film, nemmeno troppo conosciuti, in belle pellicole restaurate) hanno visto la sala del cinema Vittoria piena forse neanche a metà. La prima - con "The Frozen North", comica muta di Buster Keaton, e "Raining in the Mountain" del regista di Hong Kong King Hu - non era forse una serata per tutti. Se il corto di Keaton è scorso via liscio e splendido divertendo la platea, il film di King Hu era, come si dice, tosto. Un film di cappa e spada, in teoria. Ma l’azione (uno strano inseguimento a piedi) arriva solo alla fine del film. Il resto, all’incirca, è attesa. Molto Zen.
L’altra serata-evento, un po’ meno deserta ma neanche questa troppo affollata, era dedicata a "Brian di Nazareth", del gruppo comico inglese dei Monty Python. Un film straordinario, pieno di invenzioni e di equilibrismi comici e linguistici, visto in un’ottima pellicola e in lingua originale. Un bel regalo da parte del Filmfestival, anche se l’unica montagna che compare nel film è il dosso da dove Gesù fa il discorso delle beatitudini (i Python però, essendo troppo lontani dallo speaker, non riescono ad afferrare bene chi possa effettivamente fregiarsi del titolo di "beato": uno spasso).
La programmazione di questo film si giustifica con la presenza a Trento di un ex-Monty Python, Michael Palin, che si è dedicato, dopo lo scioglimento del gruppo, a girare il mondo per fare documentari per la BBC. Nelle tre occasioni in cui si è presentato in sala, Palin è riuscito a meritarsi il titolo di uomo-immagine di questa edizione, con una disponibilità e una spontanea simpatia assolutamente in linea con l’atmosfera familiare del festival.
Nell’incontro con il pubblico, Palin ha risposto volentieri a domande sulle relazioni di potere all’interno dei Monty Python e sul suo presente televisivo. Per quanto riguarda il suo lavoro di documentarista, la puntata di "Himalaya" che abbiamo visto conferma tutti i positivi pregiudizi che circondano il nome della BBC. E’ proprio televisione di qualità, capace di informare e intrattenere allo stesso tempo. Camminando per l’Himalaya, Michael Palin sa fermarsi a parlare con turisti e locali, affrontare discorsi politici, alleggerire di continuo con il suo humour inglese.
Altro punto forte del festival era la proposta di opere cinematografiche recenti o recentissime, recuperate fra quelle che fanno bella figura ai principali festival internazionali e sanno cogliere o sfiorare i temi della montagna, dell’esplorazione, dell’avventura.
Un film che per il tema che tocca pare sarà distribuito nelle sale italiane è "Turtles Can Fly" del regista iraniano Baham Ghobadi, già autore del montano "Il tempo dei cavalli ubriachi". La pellicola racconta con una forza testimoniale enorme la vita di bambini - orfani, mutilati, self-made men… - in un campo profughi nell’Iraq del dopo Saddam. E’ un film teso e molto duro: quando si vedono dei bambini che si suicidano, non si sa proprio più dove cercare la speranza. La presentazione in sala del film ha rivelato un altro buono spunto del festival, che è andato in cerca (anche) di una lettura della montagna intesa come luogo dove spesso si tracciano i confini nazionali. La montagna è frontiera, confine, punto di contatto tra popoli o di tensione politica.
In questo contesto si colloca anche un altro incontro felice, quello con "The Hunter" (2004), film kazako di Serik Aprymov, regista già premiato al festival di Torino. Uno sguardo veramente profondo, il suo, per raccontare l’adozione di un ragazzo da parte di un cacciatore solitario. La padronanza tecnica del mezzo cinematografico è al servizio di una storia ambiziosa dove la natura sa ancora essere per l’uomo specchio e metafora.
Altra sorpresa, il film (durata: 172 minuti) "Atanarjuat" (Zacharias Kunuk, Canada, 2002). Non credevamo di restare fino alla fine a vedere questo che era presentato come "il primo thriller prodotto, girato e interpretato interamente da Inuit". E invece - pur non essendo precisamente un thriller - il film è stato capace di catturare, convincere, nel suo essere slegato dalle regole temporali e dalla linearità narrativa del cinema occidentale classico. L’influenza, più che in Quentin Tarantino, va (ipotesi) cercata in una loro antropologicamente diversa concezione del tempo. E’ evidente che per gli Inuit la macchina da presa non è scontata, e non è scontato nemmeno dove posizionarla.
Va aggiunto a questo punto che la retrospettiva "Le ombre bianche" sui film legati al tema dei Poli ha colto nel segno. Le immagini (neve, cani da slitta, aurore boreali, animali e uomini che sfidano ad ogni minuto la natura) sono belle e affascinano a prescindere da quello che raccontano.
Antropomorfici cani da slitta sono fra i protagonisti anche di "Le dernier trappeur" (Nicolas Vanier, Francia, 2003), che si inserisce nel filone della docufiction che ha avuto diversi film premiati con la Genziana d’oro. Quest’altra storia di un cacciatore solitario rimane però troppo palesemente finta per coinvolgere fino in fondo: troppe volte una produzione che si presenta come povera su di un cacciatore isolato si giova di mezzi tecnici ricchi (elicotteri, dolly, effetti…) che ne minano l’effetto-realtà. Va detto che i paesaggi sono talmente suggestivi da costituire da soli un motivo di interesse per il film (almeno al cinema e in panavision).
Alla fine ha vinto la Genziana d’oro un film di alpinismo, "Extremo Sul" (Monica Schmiedt, Brasile, 2004), sulla classica montagna irraggiungibile. E anche gli altri premi minori sono andati a titoli da Filmfestival "tradizionale". L’aver dato spazio a visioni diverse non pare aver penalizzato quindi così drasticamente i film concepiti per chi si intende sul serio di montagna e di arrampicate.
Di questi premiati, confessiamo di non averne visto proprio nessuno. Avendo piacevolmente dedicato alle proiezioni tutte le sere e qualche pomeriggio della settimana del Filmfestival, questo è un indizio in più su come il programma della 53a edizione abbia saputo fornire una pluralità di percorsi. Adatti a essere avvicinati da spettatori forniti di attrezzature da arrampicata e anche da passeggiatori dalle gambe molli ma con uno sguardo estetico disponibile a perdersi pacatamente fra gli orizzonti del cinema.