La morte e la fanciulla
Il lavoro di Ariel Dorfman sui desaparecidos cileni, in una messa in scena controllata, estraniante eppure a forte carica emotiva.
Andata in scena al teatro Cuminetti, "La morte e la fanciulla" chiude la breve rassegna "Teatro d’Aprile". Il cileno Ariel Dorfman la scrive nel 1990, quando il dittatore Augusto Pinochet lascia la presidenza consentendo suo malgrado, dopo anni di silenzio, che sia aperta un’inchiesta sui desaparecidos: prima, anche solo parlarne era un "attentato contro lo Stato"; ora è l’inizio di una lontana riconciliazione nazionale.
Nel ’95, Polanski porta la pièce sul grande schermo, con la supervisione e l’adattamento dell’autore. Dorfman conferma d’essere molto legato alla sorte e al messaggio delle sue opere: ha seguito, per corrispondenza dal suo Paese, le fasi dell’allestimento curato da Leonardo Franchini, la Compagnia dell’Attimo di Rovereto e la Compagnia Teatro Obliquo di Trento. Per rendere universale il testo, "dedicato alle vittime di tutte le dittature", scompaiono i riferimenti più diretti alla realtà cilena (nomi, vie, ecc.). Dell’originale è, però, mantenuto l’ambiguo rapporto vittima-carnefice, colpa-perdono, bene-male, passato-presente; i ruoli si ribaltano di continuo e nessun punto di vista è privilegiato, mentre Polanski aveva adottato quello di Paulina.
Le scene, proprio perché ridotte all’essenziale, rimandano ad una palese simbologia. Gli specchi in plastica convessi, deformanti, moltiplicano e distorcono i corpi degli attori, mostrandone l’incoerenza, i lati oscuri e nascosti; le sedie, al contrario, li imbalsamano.
La recitazione controllata, talora al limite del monocorde, trae insegnamento dalla tecnica di Peter Brook; è notevole lo sforzo di Franceschini (Gerardo), Callà (Paulina) e Penner (Roberto) per contenere la passione e non cadere in un’interpretazione "naturalistica".
La platea è il polo positivo, il palcoscenico quello negativo: gli attori, con la loro freddezza ("coldness" - l’ha definita Dorfman in una e-mail per Franchini), caricano il pubblico che si accolla le reazioni più forti, emozioni comprese. Le interruzioni della voce sono spesso brusche, quasi le battute si concludessero con una sincope. La postura rigida, con le braccia aderenti ai fianchi, congela i movimenti; persino la reciproca posizione degli attori è innaturale: sguardi assenti, la pistola puntata verso il vuoto…
Semplici ed efficaci gli effetti sonori di Andrea Cristofori, che si alternano al "Quartetto in RE min. n. 14" di Schubert, noto come "La morte e la fanciulla" (da cui il titolo della pièce). La musica dovrebbe insinuare dolcezza ed insieme amore per la cultura, e diviene invece uno strumento di tortura: il dottore ascoltava questo brano durante le torture e gli stupri. La sensazione è tutt’altro che catartica: ci si sente impotenti, vendicativi, inclini al perdono… tutto scorre nella mente, tranne il passato.