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QT n. 4, 26 febbraio 2005 L’editoriale

Totò Riina, i giudici e la legge

Le (improbabili) negligenze del generale Mori, il (probabile) accordo con la mafia, le (ragionevoli) logiche della ragion di Stato. Ma tutto deve avvenire secondo precise garanzie.

Anche questo caso si inscrive perfettamente nella strategia mediatica volta a screditare i giudici. E’ stato detto che sono "antropologicamente diversi", insomma "matti" e quindi indigna ma non sorprende che emanino sentenze "incredibili" e "vergognose". Se un giudice si trova dinanzi alla necessità di definire il significato del termine "terrorista" usato dalla legge, o di proporre la pena da infliggere ad assassini satanici pentiti e giudicati con rito abbreviato, se in questi casi il giudice si prende la briga di voler rispettare la legge ed applicarla secondo il suo motivato libero convincimento, ebbene non ha alcuna importanza che tutto ciò sia semplicemente rispettoso dei principi costituzionali: ciò che conta è far salire la canea contro questi giudici, investirli con corali riprovazioni, sommergerli di improperi proferiti in nome di un preteso comune sentimento popolare.

Così è accaduto ancora una volta contro Vincenzina Massa, giudice dell’udienza preliminare di Palermo, che ostinatamente si è rifiutata di archiviare un’inchiesta che era stata aperta contro il generale Mario Mori ed il colonnello Sergio de Caprio, entrambi dei carabinieri, sospettati ed accusati di favoreggiamento della mafia perché nel gennaio 1993, dopo avere arrestato Totò Riina omisero di perquisire il covo della sua pluriennale latitanza.

Mori, oggi capo del Sisde, e De Caprio sono, per comune riconoscimento, due benemeriti servitori dello Stato. Hanno lodevolmente combattuto contro la mafia e quindi è impensabile che abbiano voluto favorirla. E tuttavia è certo che, dopo avere catturato Riina, per ben tre settimane la villa da lui e dalla sua famiglia clandestinamente occupata per molti anni non fu sottoposta ad alcun controllo. Ed è per l’appunto la indiscussa preparazione professionale dei due ufficiali che rende un tale comportamento stupefacente. Non può attribuirsi una simile omissione e sprovvedutezza o negligenza. La loro esperienza era tale da escludere che non sapessero che nel covo del latitante potevano trovarsi documenti o altri indizi preziosi per perseguire una attività criminosa a dimensione associativa, com’è quella della mafia.

Riina aveva avuto dei complici che gli garantirono la latitanza, e che avevano cooperato con lui nel tempo della sua clandestinità in tutte le attività illecite. Una attenta e scrupolosa perlustrazione del covo era la misura ovvia che qualsiasi anche inesperto funzionario di polizia avrebbe ordinato nella speranza di trovarvi elementi di prova utili per contrastare l’intera organizzazione.

Non fu dunque per semplice negligenza e incuria che i due funzionari non solo non attuarono la perquisizione, ma addirittura la impedirono. Secondo le notizia di stampa infatti pare che pochi minuti dopo la cattura di Riina due ufficiali dei carabinieri, Domenico Menicucci e Andrea Brancadore, accompagnati dal sostituto procuratore della Repubblica Luigi Patronaggio, stavano per recarsi alla villa per ispezionarla, ma furono fermati alla porta della caserma "Bonsignore" da un appuntato per ordine del generale Mori. Dunque l’omissione fu volontaria e non colposa.

L’ipotesi più probabile è che la cattura di Riina sia stata concordata da Mori con esponenti della mafia, con l’intesa che l’indagine non sarebbe andata a frugare in altri angoli.

La cosa di per sé non mi scandalizza. Non credo sia l’unica volta in cui fra mafia e rappresentanti dello Stato si siano stretti simili patti. Per il ministro Lunardi - ricordate? - con la mafia bisogna convivere. Vi è poi il precedente tenebroso della cattura di Salvatore Giuliano. In determinate situazioni una simile prassi può anche essere necessaria, quando il saldo fra costi e benefici è all’attivo. Si chiama ragion di Stato ed è affidata ai servizi segreti. Non è una bella cosa, e tuttavia in certe circostanze bisogna accettarla.

Però un minimo di garanzia è comunque necessaria. Io posso fidarmi di Mori e del "capitano Ultimo", come è chiamato De Caprio. Ma chi mi assicura che di tale fiducia taluno non possa abusare? Navighiamo in una sfera senza regole ove tutto è possibile. Da qui deriva l’imbarazzo dei pubblici ministeri di Palermo che non vogliono sostenere l’accusa al processo, perché sanno di non poter motivare una domanda di assoluzione che invece in coscienza vorrebbero proporre. Da qui nasce l’ostinazione della giudice che, dinanzi ai fatti noti ed alla legge scritta, non può ignorare gli uni e l’altra. Se in certi casi si ritiene necessario sospendere il vigore della legge, ebbene deve essere ancora la legge a stabilirlo, indicandone le condizioni e le modalità.

Ancora una volta il vizio è nella legge, non nei giudici che la applicano. Ma ai nostri governanti fa comodo far credere il contrario.