Alberto Giacometti a Ravenna
Cento opere in mostra fino al 20 febbraio.
Ravenna, città di zanzare e splendori bizantini, da qualche anno promuove, nel Museo d’Arte della città, significative mostre dedicate all’arte dell’Ottocento e del Novecento. E’ il caso di quest’ultima importante antologica dedicata ad Alberto Giacometti.
Provenienti per lo più dalla Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence (la stessa, per intenderci, della recente mostra su Mirò al Mart), ma anche da numerose collezioni pubbliche e private, le oltre cento opere esposte costituiscono la più ampia mostra mai realizzata in Italia dedicata a quest’importante artista svizzero, ammirato tra i tanti da Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Samuel Beckett.
Una staticità corrosa dal tempo, un bronzo grezzo come una colata vulcanica, stilizzazioni longilinee dalle similitudine etrusche: la modernità della scultura di Giacometti sembra al contempo gettare sguardi a forme ed incanti antichi. Non è forse un caso quindi l’innamoramento giovanile dell’artista per l’arte dei secoli passati, una rivelazione avvenuta nel 1920 quando, diciannovenne, giunse in Italia col padre (Giovanni, noto pittore impressionista) per la biennale veneziana. Pompei e Paestum, Bellini e Tintoretto, Giotto e soprattutto Cimabue furono impulsi vitali ai quali si aggiunse, nel 1922 a Parigi, la scoperta dell’arte negra e di quella cicladica. Nella VilleLumière Giacometti affiancherà l’amore per l’antico con l’avanguardia di Archipenko e del cubismo plastico di Laurens e Lipchitz, per poi approdare in breve tempo all’entourage surrealista di Brenton & Co.
Il percorso espositivo parte proprio da queste prime sculture, tra scomposizione cubista e gusto surrealista per gli oggetti a "funzionamento simbolico". Sono di questi anni opere come la totemica Le Couple (1926), l’enigmatica Le cube (1933), nonché la fondamentale L’objet invisible (1934-5), ove una stilizzazione tipica di certa arte africana s’incontra con il gusto per il mistero e la metafisica.
E’ bene subito precisare che il suo successivo e personalissimo stile, emerso dal travaglio di un cocktail di diversi e contrastanti impulsi (antico-contemporaneo, geometria cubista-libertà surrealista), se ha come risultato più noto e celebre le sue inconfondibili sculture, poggia sul solido bastone del disegno. Non studi fini a realizzazione plastiche, bensì opere autonome, sperimentazioni condotte con maggiore libertà rispetto alla rigidità del bronzo. Di questa attività parallela il percorso dà ampia e documentata testimonianza, con opere su carta che vanno dai ritratti introspettivi del fratello Diego fino a raffigurazioni stenografiche di persone, luoghi, situazioni. In questi lavori grafici, come nella coeva produzione plastica e pittorica, ciò che emerge è soprattutto una forte aderenza alla realtà e alla natura. Uno stupefacente utilizzo del visibile per giungere all’ossatura, all’essenza delle cose: un’analisi entro la sintesi.
I disegni, i dipinti, le sculture vivono tutti la medesima dimensione. E’ però nelle sculture, con la rivelazione della materia, con la pesantezza del bronzo, che il mezzo è anche messaggio. Figure arcaiche, essenziali, che sembrano strappate d’un colpo dalla roccia. Estremamente moderno è l’isolamento in cui vivono questi personaggi, immobili e nudi, avvolti in un angosciante silenzio. Raramente - come in Tête de Diego au col roulé (1951-2)- sono persone riconoscibili; quasi sempre sono pretesti per esprimere una condizione che da personale si fa universale.
Ancor più intense, se possibile, le composizioni con più figure, come ne "La forêt (Place, sept figures, une tête)" del 1950. Il senso di isolamento, si solitudine, d’incomunicabilità, emerge qui ancora più a fondo. L’unico legame possibile sembra dunque - magra consolazione - la comune ed angosciante situazione esistenziale. Questi personaggi sono per lo più privi di movimento, rigidi come stalagmiti; quando c’è un accenno di azione, come in "Trois hommes qui marchent" (1943-9) o in "Figurine dans une boîte entre deux boîtes qui sont deux maisons" (sempre del 1950), la loro rigidità è comunque solo in parte alleggerita, velata. Più dinamiche, ma non meno drammatiche, le bestie che raramente compaiono, isolate. E’ il caso di "Le chat" (1951) o ancor più di "Le chien" (1957), ove un cane ridotto all’osso sembra cercare, nell’asperità del terreno, un ultimo tozzo di pane, prima della morte.
I ritratti ad olio non sono certo meno intensi. Portrait de la mère de l’artiste (1947), Portrait de Diego (1954), Buste d’Annette (1954) nonché Portrait de David Thompson (1957) sono tutte opere che presentano personaggi sì riconoscibili, ma attraversati da enormi pulsioni che nel tratto si fanno vortice di segno, groviglio di linee, grigio appiattimento di cromie.