Oriente Occidente 2004
Una buona edizione. Resta una domanda: non è che lo spazio ad altri ambiti (atletica, robotica, letteratura, cucina...) releghi la danza in secondo piano?
La danza è un’arte interdisciplinare per eccellenza e per necessità: ha bisogno di continue contaminazioni e di scambi per rinnovarsi e mantenere la sua attrattiva. Spesso però, quando il fine travalica il mezzo, la poesia del movimento si annulla in un’esasperata ricerca di spettacolarità. E così nell’edizione 2004 del festival, tra letteratura, atletica e robotica, la ricerca si è forse spinta eccessivamente fuori dal seminato e la danza da protagonista è divenuta componente quasi accessoria.
Nulla da eccepire all’eccezionale preparazione atletica dei ginnasti di Streb, esibitisi in spericolate acrobazie al limite del masochismo, né all’arditezza degli scalatori dondolanti dalla cupola del Mart in Stories of Gravity and Transformation, ma la danza dov’era? Troppo scontata e ripetitiva per essere considerata veramente tale.
Più intrigante la proposta di Louis-Philippe Demers e Bill Vorn, che hanno rinchiuso gli spettatori in una gabbia assediata da inquietanti robot; peccato che i poveri esseri cingolanti si siano a un certo punto rifiutati di proseguire nel loro scardinato ‘ballo’, provocando un corto circuito inaspettato e lasciando gli spettatori a bocca asciutta nella prima dello spettacolo.
Uno tra gli appuntamenti più applauditi - l’unico ad aver tenuto fede alla vocazione orientale del festival - è stato quello proposto dal coreografo di origine cinese Shen Wei, trasferitosi a New York negli anni Novanta. Folding, uno dei due pezzi portati in scena al Teatro Sociale di Trento, è stato concepito dall’autore per una compagnia cinese: si tratta di un lavoro astratto ed estetizzante, in cui la danza entra a piccolissimi passi in un’atmosfera altamente onirica, accompagnata dalle suggestive note di una canto buddista tibetano; Rite of Spring è invece una coinvolgente rilettura della Sagra della primavera di Stravinsky, in cui 12 interpreti percorrono il palcoscenico seguendo la scia nera di binari prestabiliti e scambiando il proprio personale movimento con quello degli altri danzatori, in un crescendo ininterrotto di incontri e contaminazioni.
Assai interessante - anche da un punto di vista prettamente estetico - pure lo spettacolo Loom di Emanuela Rastaldi, giovane coreografa italiana attiva in Belgio, la quale ha indagato il tema della presenza-assenza del corpo sulla scena, attraverso un lento e faticoso percorso di scoprimento, che porta dallo stato di semplici ideogrammi a quello di sagome e infine a quello di persone in carne ed ossa. Si tratta di un’operazione un po’ difficile - e purtroppo è stata disdegnata dalle folle in cerca di spettacolarità - che all’inizio rasenta quasi l’arte concettuale, per scatenarsi poi in un turbinio di movimenti dinamici di chiara impronta contact-improvisation. Anche il lavoro di Laura Corradi ha insistito sul tema della corporalità, intesa nei suoi aspetti più fisiologici così come nel suo costituirsi come tramite tra l’individuo e il mondo delle relazioni interpersonali; il risultato d’insieme è parso però a tratti poco coinvolgente a causa di una certa freddezza formale e soprattutto dell’utilizzo di espedienti teatrali ormai abusati, in primis il gioco sul calzare e sul togliersi le ‘scarpette rosse’.
Le proposte del coreografo belga Bud Blumenthal, a cui il festival ha dedicato quest’anno una retrospettiva, sono invece intrise di rimandi letterari e multimediali. Un pizzico d’oriente si è respirato pure in 24 Haïkus, trasposizione coreografica dello stile lineare ed essenziale che caratterizza gli omonimi componimenti brevi giapponesi, mentre il mito di Ulisse ha costituito l’ispirazione principale per la creazione di due spettacoli: Les Reflets d’Ulysse, presentato in prima nazionale a Rovereto, e Les Sentiers d’Ulysse, presentato invece a Mantova nell’ambito del "Festivaletteratura". Fondamentale, ai fini della riuscita teatrale di questi ultimi due lavori, l’apporto delle nuove tecnologie e in particolare del video, che si fonde coi movimenti dei danzatori in una sintesi di grande impatto scenografico.
Di grande effetto anche Escucha mi cantar di Guilherme Bothelo, che ha scelto di ambientare l’azione dei suoi danzatori su di uno scenario in movimento perpetuo, in cui si intravedono a rotazione tre stanze identiche e anonime, mutuate dalle opere di quattro celebri artisti contemporanei (Hopper, Hammershoï, Fischl, Hochney): all’interno quattro interpreti si trovano alle prese con la monotonia e l’assurdità del vivere quotidiano e lo spettatore, costretto ad una visione voyeuristica, è inevitabilmente portato ad assorbire l’inquietudine di tale psico-dramma esistenziale.