Oriente Occidente: 25 anni
I nuovi filoni di ricerca della danza internazionale proposti dalla venticinquesima edizione del Festival di Rovereto.
Il Festival Oriente Occidente compie un quarto di secolo, e sembra ieri. Dalle antiche piazze del centro storico a quella nuovissima del Mart, il percorso di questo festival che è da tempo un’istituzione internazionale per la danza contemporanea non smette di stupire, proponendo incessantemente nuovi rivoli di ricerca, all’insegna dell’incontro e del confronto fra popoli e culture, tradizione e innovazione.
Il programma di quest’anno non è stato da meno, a iniziare dal primo spettacolo, "AtaXia", del coreografo inglese Wayne McGregor. Una narrazione bifronte, atavica quanto tecnologica, geniale nel dar forma a gesti involontari patologici, incontrollabili e quasi dionisiaci, accompagnati da video e musica non meno caotici, apparentemente, ma solo apparentemente, scoordinati.
Il lavoro di Luc Petton si ispira al contrario a una rigorosa meccanicità architettonica; un omaggio - palese pure nel titolo, "Oscar" - all’artista e coreografo Oskar Schlemmer, legato al Bauhaus. Ogni danzatore, come una sorta di marionetta, era fornito di una serie di stecche e bastoni che a mo’ di protesi comicamente iperboliche ne condizionava i movimenti, sebbene in maniera mai rigida, vincolante. L’idea più che di fissità è quella di un’architettura sinuosa in movimento, di una metamorfosi ludico-meccanica del corpo che ne dilata le modalità espressive.
Tutto esaurito pure per "Ho male all’altro" di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, ultimo appuntamento di una trilogia ispirata alla tragedia mitologica che ha saputo innestare nel festival un tocco di intensa quanto piacevole teatralità; l’ennesima riprova di quanto i confini tra le arti contemporanee siano labili e spesso difficilmente schematizzabili.
All’insegna della fusion tra generi pure "Allegoria Stanza" della compagnia franco-algerina di Abou Lagraa. Ben dieci i danzatori che hanno alternato movimenti hip hop con altri ispirati ai balli popolari del Mediterraneo, rincorrendo sonorità liquide con echi ora di nenie arabe, ora del ritmo delle percussioni africane, ora dei ritmi elettronici tecno. Un collage etnico che ha presentato forse la migliore scenografia, sublimata dai video new-age di Charles Picq, che hanno meritato da soli un caloroso applauso. Tra hip hop ed etnicità si è mosso pure, in maniera decisamente più vivace e dinamica, il gruppo Up the Rap, dal Madagascar, che ha mescolato l’hip hop con indemoniate danze tribali. Ancora hip hop, tutto occidentale ma assolutamente spettacolare, è stato quello proposto dalla francese Compagnie Révolution. Con acrobazie circensi - impressionante il "danzatore" che girava sulla testa come una trottola, a una velocità incredibile, per una quindicina di secondi - la compagnia è stata forse la più amata dai non addetti ai lavori, capace di raccogliere fiumi di applausi dai passanti, notoriamente distratti e disinteressati, nelle vie del centro di Rovereto e Verona. E questi giovanissimi ballerini che danzano con le mani muovendo in aria i piedi mica si sono accontentati delle ben cinque performance in programma: si sono visti a Rovereto, in una giornata di pioggia, ballare divertiti sotto un portico con altri coetanei locali, indubbiamente meno capaci.
Un contatto orizzontale con il pubblico lo si è vissuto pure con la compagnia bulgaro-francese di Sophie Tabakov, che nell’insolito palcoscenico della Campana dei Caduti ha realizzato prima una danza in collaborazione con alcuni ballerini locali, poi, in un secondo spettacolo, ha offerto una "danza per la pace" coinvolgendo il pubblico.
Stralunata, irriverente e surreale è stata invece l’esibizione della compagnia di Konstantinos Rigos, declinazione pop del classicissimo Lago dei cigni.
"Swan Lake City" ha presentato in un ambiente ovattato e intriso di luci ed oggetti dodici stravaganti ‘cigni’ che sembrano colti dalla più televisiva middle class americana, in cerca di un attimo di gloria, di un minuto da eroe, di un primo piano e soprattutto di uno fragoroso applauso.
Intense ambientazioni pure nel doppio spettacolo di Shobana Jeyasingh, una delle prime coreografe che ha saputo fondere le ataviche e mistiche danze indiane con il linguaggio della danza contemporanea; di particolare effetto la scenografia a fasci di luce immersi in sonorità elettroniche del compositore Michael Nyman, magnifico nel fondere i suoni più diversi per poi donarli ai passi dei danzatori.
Il festival è stato chiuso da una delle più fervide sperimentatrici della danza contemporanea, l’eclettica Anna Teresa De Keersmaeker.
Il primo dei due spettacoli, "Once", è un viaggio autobiografico a ritroso per tessere forti legami col presente. Colonna sonora un intero album live di Joan Baez, amato in gioventù dalla coreografa durante le lotte pacifiste contro la guerra in Vietnam; un paragone immediato con la situazione internazionale odierna, che lascia la danzatrice seminuda, attonita davanti al ripetersi della tragedia, ma non per questo impotente. "Desh", più dinamico e al contempo astratto, è una rivisitazione contemporanea della danza indiana, in cui l’alfabeto dominante è quello della gestualità delle mani, delle braccia, delle torsioni.