I luoghi della morte
Quando la morte diventa un fatto assolutamente privato.
L'occultamento e la rimozione sociale della morte diventano la risposta alla secolarizzazione di questo ambito della nostra vita sociale: "dalla morte addomesticata alla morte selvaggia", come titola Philippe Ariès il suo saggio storico sulla morte in Occidente; dalla morte cioè accolta fra le pareti domestiche come elemento previsto, anche se doloroso e traumatico, che fa parte della vita, alla morte espulsa dalle pareti domestiche e occultata in aree che la sottraggono alla visibilità sociale accettata.
Nel nostro mondo occidentale fino al secolo scorso, e in molte zone fino a pochi decenni orsono, morire in casa era normale e logico. La propria abitazione rappresentava l’ultima dimora terrena prima dell’aldilà, e nessuno vedeva in questo niente di eccezionale. Il letto della propria abitazione - scrive Ariés - "diventava il teatro di un dramma in cui il destino del moribondo era in gioco per l’ultima volta, in cui tutta la sua vita, le sue passioni, i suoi affetti erano messi in discussione".
Soltanto quando all’abitazione domestica subentra l’ospedale come luogo deputato a ospitare la fase terminale della vita e la morte, si viene progressivamente a creare tra questi due luoghi una contrapposizione che riguarda proprio il rapporto tra lo spazio e la morte:
- da una parte il "calore" della casa, il conforto dato dalla certezza di morire circondati dagli affetti dei propri cari, fra le pareti che hanno ospitato tutte le fasi salienti della propria esistenza, gestendo consapevolmente la propria morte, dando rilievo testamentario alle "ultime volontà" raccolte dai presenti;
- dall’altra la "freddezza" di un’istituzione anonima, che riesce magari a prolungare la vita del malato di qualche giorno, ma in compenso gli preclude la possibilità di fare della sua morte un "evento importante e gestito". In ospedale si può morire soli, nel cuore della notte, o male accompagnati, fra persone che non hanno alcun rapporto affettivo con chi è agonizzante e che spesso cercano di scaricare sul personale del turno successivo le incombenze del trapasso.
La morte - per il solo fatto di avvenire in una residenza privata (la casa) - sembra acquisire uno spessore maggiore, si colora e si carica di sentimenti, di emozioni, di incertezze che la struttura ospedaliera non permette, o che comunque tende a scoraggiare. La casa sottrae alla morte quell’immagine asettica che le viene conferita dalla scienza e dalla tecnologia medica: tornano in primo piano quegli elementi di sofferenza umana che l’ospedale invece riesce non tanto a eliminare. quanto a occultare. L’abitazione non aiuta forse a dilazionare il momento della morte, non mette a disposizione del malato le sofisticate apparecchiature ospedaliere in grado di rinviare l’attimo fatale. Tuttavia la sfera domestica potrebbe contribuire appunto ad "addomesticare" l’evento, a prepararlo e a gestirlo in un altro modo, a scardinarlo quantomeno dall’angoscia di guardare in faccia la fine da soli.
Ma è riportabile oggi la fase terminale della vita e la morte fra le mura domestiche? La casa così come oggi è concepita, strutturata e vissuta la può ospitare? anche in termini puramente logistici e fisici? Forse non basta la semplice buona volontà e nemmeno l’aiuto del volontariato o dell’organizzazione sanitaria. Occorre - quantomeno come condizione necessaria anche se forse non del tutto sufficiente - un profondo rivolgimento culturale rispetto al portato della modernità e della postmodernità.
La morte infatti è venuta progressivamente ad essere concepita come un evento personale riguardante strettamente la sfera privata del singolo soggetto individuale che è costretto ad affrontarla e, quando è ora, a subirla, al riparo da sguardi "indiscreti".
Ma il concetto di "indiscrezione" è rigorosamente un prodotto dell’epoca moderna e non è escluso che da molti possa essere considerato addirittura un progresso rispetto al passato premoderno.
Resta che nella premodernità le abitudini e le regole sociali prevedevano che il morente trascorresse gli ultimi istanti circondato dai parenti, anche quelli a lui meno prossimi, dagli amici, dai vicini, dalla comunità. La morte infatti era un evento, certamente personale, ma pubblico: la campana che ne segnalava l’imminenza, il cerimoniale del viatico, dell’estrema unzione e successivamente la veglia funebre, chiamavano a raccolta la comunità attorno al morente e la casa apriva a tutti le sue porte in un’aura di sacralità, trasformata, proprio dalla morte, in luogo di preghiera.
E’ la modernità che privatizza la morte, sottraendola al sacro e alla visibilità sociale, che trasforma la casa. per un modello imposto di famiglia nucleare, in un impenetrabile tempio secolarizzato della privacy, in cui la morte non è prevista, da cui viene espulsa, per essere relegata nel nascondimento, quasi colpita da uno stigma di impresentabilità sociale.