Una Stella Alpina per Luciano Berio
Ricordi privati su un grande personaggio.
Luciano Berio è morto qualche giorno fa, non so esattamente quando, né di quale morbo. Mi è capitato di leggere un trafiletto ad memoriam su un quotidiano mentre stavo al bar a mangiarmi un panino. Non ho avvertito una consistente eco mediatica alla notizia, almeno pari a quella che immagino provocherebbe la dipartita di Rita Pavone.
Eppure Berio era un grande: secondo me l’ultimo grande compositore colto della storia della musica, l’ultimo ideale erede di quella tradizione ormai disfatta che promana da Monteverdi e Bach fino ad esaurirsi in quella specie di Giudizio Universale che è stato il secolo ventesimo.
Avevo di poco passato i venti quando lo conobbi. Suonavo i sintetizzatori al teatro alla Pergola di Firenze nell’Opera delle Filastrocchedi Virgilio Savona (quello del Quartetto Cetra). Berio, direttore artistico e patrocinatore dell’opera, era presente tra il pubblico. Io, nella foga della verde età, mi ero esibito sopra le righe facendo un gran baccano con le tastiere, al punto da sommergere orchestra e cantanti. Alla fine della performance scoppia un gran casino: i cantanti, il direttore d’orchestra e lo stesso Savona vengono da me incazzati come bestie dicendo che sono un cane e che ho rovinato l’opera. Mentre mi lecco le ferite il mio batterista piomba in mutande nel camerino e mi urla testualmente: "Franz, gh’è il Berio che te zerca! El dis che te sei sta el pù bravo de tuti..." E io, che sono pure in mutande, esco di corsa e mi trovo davanti il Berio che mi fa i complimenti mentre i miei detrattori assistono all’evento instupiditi.
Berio sentiva il dovere di collaborare con musicisti che lui riteneva possedessero una forte musicalità: la sua arte anzi traeva sostanza proprio dall’incontro con gli esecutori e i compositori. Era il suo modo di rinnovarsi. Qualsiasi musicista che esprimesse personalità lo interessava e lo stimolava a fare progetti e a creare nuovi linguaggi. Sua moglie Cathy Berberian, Bruno Maderna, fino ad arrivare a Milva, Frank Zappa e ai Swingle Singers... ognuno di questi artisti aveva qualcosa di unico che lui intendeva sinceramente sublimare. Era intelligente: aveva intuito in che direzione stava procedendo la musica e per questo ricercava novità e sperimentalismo, nonostante non potesse costituzionalmente rinunciare ad un linguaggio estremamente colto e a volte intellettualistico. In ogni sua composizione si è sempre preoccupato di stabilire un richiamo popolare, che rendesse la sua musica meno astratta di quella di tanti suoi contemporanei. Le folk-song innanzitutto, ma pure le sinfonie, alcune sequenze, le opere... rielaborano materiale e stilemi desunti dalla canzone tradizionale e anche spunti di musica leggera. Tuttavia il cervello ordinatore di questo materiale è puramente classico, le suggestioni sonore sono frutto di profonda cultura e fantasticano tra reminescenze tardoromantiche, neoclassicismo stravinskiano, Scuola di Vienna: una sintesi generosa e titanica di un mondo che non c’è più.
Ho lavorato parecchio con Berio nei primi anni Ottanta. Gli stavo simpatico e, causa la mia origine e i miei modi montanari, mi aveva ribattezzato Stella Alpina. Il più bel ricordo risale a palazzo Pitti, durante una prova dell’Orfeo di Monteverdi (una rivisitazione di Berio di cui ero coautore oltre che tastierista e direttore di un gruppo strumentale). Lo vedo che discute animatamente col regista Pier Luigi Pizzi. Mi avvicino e sento che per velocizzare l’azione hanno intenzione di eliminare l’aria finale di Euridice. Mi sembra una scelta abominevole e poiché la giovinezza mi dà una certa patente di incoscienza intervengo: "Bene, togliamo pure il momento più bello dell’opera così poi possiamo tutti andare in culo!". Il mondo intorno si blocca. Silenzio totale. Tutti mi osservano e a me gira un po’ la testa e sono sudato: stavolta mi cacciano senza paga. Poi mi sento prendere per un braccio. E’ il Berio che mi guarda soddisfatto e dice: "Hai ragione, Stella Alpina, Euridice non si tocca!".