Gino Severini
Il più francese degli italiani
Gino Severini è una di quelle rare figure d’artista che attraversano indenni la prima metà del XX secolo, senza ancorarsi a una singola corrente artistica, per quanto importante. Un transavanguardista ante litteram, che dagli esordi romani imbevuti di divisionismo passò in seguito nelle primissime file del movimento futurista, approdando successivamente alle scomposizioni cubiste e alle ricostruzioni figurative del ritorno all’ordine, per poi evolversi nuovamente fino a rivisitare, negli ultimi anni, le sperimentazioni giovanili. Un giro di giostra che non escluse nemmeno una varietà tecnica - dalla pittura da cavalletto al mosaico, dall’affresco all’illustrazione - così come una ricchezza di soggetti, dagli spensierati cicli ispirati alla Commedia dell’arte alla pittura a tema sacro.
La mostra al Mart (fino all’8 gennaio), già presentata con delle varianti al Musée de l’Orangerie di Parigi, ha l’indubbio merito di presentare in maniera completa, dopo vari decenni d’oblio, la produzione di quello che a detta di molti fu il più francese degli artisti italiani, anche attraverso opere inedite o comunque mai esposte in Italia. Una di quelle mostre, purtroppo sempre più rare, in grado di affiancare piacevolezza a indagine scientifica: a tale proposito vale la pena ricordare che accanto all’evento espositivo gli archivi del Mart hanno dato vita a due nuove pubblicazioni: “Il carteggio Gino Severini - Jacques Maritain (1923-1966)”, a cura di Giulia Radin (Firenze, Olschki) e “Fondo Severini. Inventario”, a cura di G. De Marco e P. Pettenella (Rovereto, Egon), quest’ultimo preziosa chiave di lettura dell’archivio dell’artista conservato anch’esso al Mart e in parte esposto a chiusura della mostra.
Gino Severini nasce a Cortona nel 1883, ma la formazione artistica avviene a Roma, ove si trasferisce ancora adolescente, entrando in contatto con Boccioni e con Balla. Quest’ultimo lo introduce alle ricerche divisioniste sulla scomposizione cromatica, ben apprezzabili in opere come Al solco (1903-1904) o Tramonto con due covoni (1905). Lo studio delle ricerche cromatiche lo spinge, nel 1906, a Parigi. Nella Ville Lumière dà vita sia a intensi ritratti (come il Ritratto di Monsieur Pautrot o l’Autoritratto con pipa, ambedue del 1908), sia a paesaggi ove la scomposizione cromatica in singoli tocchi raggiunge nuove traguardi (Primavera a Montmartre, 1909).
La stagione futurista, ufficializzata con la sottoscrizione del Manifesto dei pittori futuristi (febbraio 1910), è documentata in mostra da una sezione ricca di capolavori, a iniziare da Ricordi di viaggio del 1911, esposto l’anno seguente alla prima mostra futurista parigina, presso la galleria Bernheim-Jeune. La scomposizione dinamica delle forme e l’idea di simultaneità prendono il sopravvento, abbandonando nei successivi dipinti - molti dei quali dedicati alla danza - ogni appiglio al dato reale, se non tramite accenni, evocazioni, persino inserzioni di oggetti nei dipinti, come nelle paillettes applicate su Ballerina blu (1912).
Le opere futuriste di Severini, non immuni da influenze cubiste, mantengono il loro accento geometrico anche nel corso della prima guerra mondiale, abbracciando però soggetti militareschi ben visibili in opere come Cannone in azione (1914) o Treno blindato in azione (1915).
Nel 1916 una nuova, dirompente svolta, sebbene in direzione opposta. In opere come Maternità o il Ritratto della moglie Jeanne Severini recupera figuratività e plasticità, anticipando il ritorno all’ordine che di lì a poco sarebbe diventato una costante di tutta l’arte europea.
Intingendo il pennello nella classicità, quella rievocata dal Quattrocento toscano, Severini fonde il suo interesse sempreverde per la luce con forme decisamente plastiche, siano esse figure umane o nature morte. Classicità non è però sinonimo di pesantezza, tant’è che molte delle sue opere si animano di figure gaie, d’un’ariosità tiepolesca, che attingono iconograficamente dalla Commedia dell’arte (Giocatori di carte, 1924; L’equilibrista, 1928).
Gli anni del secondo Dopoguerra sono quelli in cui Severini rivisita i tempi dell’avanguardia, della propria avanguardia, tanto da spingerlo a ridipingere l’enorme tela del 1911-1912 La Danse du pan pan à Monico (1911-1912), distrutta nel corso degli anni Trenta. Anche quest’ultima fase, la meno studiata dell’intera produzione dell’artista, è documentata nel percorso da un buon numero di opere significative, come Piccola bambina in rosso (Romana) del 1946 o Ritmo e architettura delle Tre Grazie (1949).
Chiude il percorso, come anticipato, una selezione di documenti provenienti dall’archivio dell’artista, da un album di disegni del 1902-4 alla corrispondenza con i futuristi e con altri esponenti dell’avanguardia internazionale, passando per fotografie, scritti, schizzi e altro ancora.