Da Salieri a Miles Davis passando per Trento
Che sia arredo urbano o musica, sempre i mediocri sono spaventati dal vuoto e dal silenzio.
Girando per Trento e dintorni capita sempre più spesso di notare quanto l’amministrazione pubblica si prodighi con zelo ad ornare strade e marciapiedi. Non c’è incrocio, parcheggio, giardinetto che non sfugga ormai alla implacabile suddivisione in miriadi di recinzioni: aiole a triangolo si alternano ad altre quadrate e circolari in un gioco che celebra l’apoteosi di Euclide e obbliga il viandante o l’automobilista in frequenti gimkane.
Osservate i parcheggi dei sobborghi: bolognini ordinati in strutture romboidali, muretti eretti a mo’ di labirinto, segnali dappertutto... Sembra che a Trento regni l’agorafobia e che sia prioritario per chi regola il flusso di persone e automezzi guidare la gente in percorsi stretti, univoci e per questo rassicuranti. A volte questa concezione aggrava i problemi di traffico: si creano imbuti che alimentano colonne, che invece si potrebbero evitare sopprimendo qualche aiola in mezzo alla strada o ridimensionando il raggio di certe rotatorie grandi come campi da baseball.
Qualcuno dirà che certe scelte urbanistiche geometrizzanti servono a disciplinare il traffico... Io davvero non penso che alla base di questo minimalismo strutturale ci sia qualche funzionalità. Penso invece che sia soprattutto figlio di una visione estetica specificamente provinciale. In altre parole, mi pare che nella mente di qualche arredatore urbano alberghi la fissazione un po’ maniacale di un canone di bellezza che vuole che lo spazio debba sempre e comunque venire riempito e delimitato.
Temere lo spazio e sentirsi in dovere di riempirlo ad ogni costo con qualsiasi cosa di forma primitivamente geometrica, squadrata, che trasfonda l’idea dell’ordine e della perfezione, ha sempre contraddistinto l’opera del mediocre. Il mediocre non tollera lo spazio ampio, detesta le opere che non esprimono in modo evidente e immediato la loro razionalità, che sfuggono agli schemi semplificati. Il mediocre non riesce ad apprezzare un quadro se non è inserito in una bella cornicetta, tutta perfettina e linda. Non assapora un brano musicale se la sua struttura armonica, polifonica o ritmica non è istantaneamente inquadrabile. Il mediocre placa il suo horror vacui spiegando minuziosamente la realtà attraverso mille parole accompagnate da mille aggettivi, i più regolari e scontati: nel suo frasario il contenitore è sempre "apposito", la distanza è sempre "debita" e gli Azzeccagarbugli sempre "di manzoniana memoria".
A pensarci bene, è proprio in questo campo che si gioca la differenza tra Mozart e Salieri. Ascoltate un pezzo di Salieri: alla seconda nota potete spegnere il giradischi perché lo sapete già tutto. Un computer con un buon software può creare mille nuove sinfonie à la manière de Salieri. Perché Salieri è prevedibile, il suo obiettivo (lo si avverte subito) è riempire il silenzio. Salieri teme il silenzio, cioè teme lo spazio aperto, perché uno spazio grande va riempito con un’idea grande. E il bello della creazione musicale sta nell’idea, nell’invenzione, non nella guarnizione. E allora come riempire il silenzio, quando si è a corto di idee, se non ricorrendo alla sua pedissequa dissezione, seguendo gli schemi più ovvii, le geometrie più elementari e banali?
Un vero artista è colui che sa gestire lo spazio e, in particolare, un vero musicista è colui che sa gestire il silenzio. Il massimo gestore del silenzio di tutti i tempi per me è stato Miles Davis. Nessuno come lui ha saputo rispettarlo tanto, il silenzio, rendendolo creativo, caricandolo di significato. Le lunghe e frequenti pause nel suo fraseggio musicale predispongono una straordinaria aspettativa nell’ascoltatore e anticipano con efficacia le conseguenti invenzioni musicali, rarefatte e sempre opportune. Davis non riempie mai il silenzio. Attende con la tromba in mano il momento giusto per suonare una frase che, proprio per la sua unicità, risulta perentoria e definitiva.
La mia più importante lezione di musica credo di averla ricevuta quando ho cominciato a suonare Jazz nei primi anni ‘80. Avevo appena finito il Conservatorio, ero giovane, e perciò giustamente impulsivo e ignorantello. Quando suonavo ero preoccupato di quello che facevo io, non della musica dell’insieme, e così mi baloccavo al piano in incessanti ghirigori improvvisativi. Dopo un concerto, il mio batterista Sergio Decarli, guru dei musicisti trentini outsiders, osservò: "De tute le note che t’hai sonà ne basteva un terzo!".
Questa molecola di saggezza me la porto sempre dietro e cerco, non senza fatica, di applicarla.