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Africa affamata: un destino inevitabile?

Fino a dieci anni fa tanti paesi africani erano autosufficienti mentre oggi dipendono dagli aiuti internazionali. Eppure la fame si potrebbe debellare... Da L’Altrapagina, mensile di Città di Castello.

Francesco Pierli

La Fao (Food and Agriculture Organization) è un organismo della Nazioni Unite di cui fanno parte 183 Stati; fu fondata nel 1945 per vincere la fame in Europa devastata dalla seconda guerra mondiale. L’obiettivo fu raggiunto non tanto con la distribuzione di cibo americano, la cui erogazione fu modesta, ma promuovendo le potenzialità agricole del continente europeo. Nel 1951 la sede fu trasferita a Roma con il compito di promuovere l’agricoltura e l’alimentazione non solo in Europa ma a livello mondiale. Ora ha 3.700 dipendenti:1.400 funzionari e 2.300 impiegati. E’ diretta dal 1994 dal senegalese Jaques Diouf, il cui secondo mandato termina nel 2006.

La Fao ha organizzato il secondo summit di Roma sulla alimentazione dal 10 al 13 giugno del 2002 (il primo ci fu nel 1996). L’obiettivo dei due vertici era quello di dimezzare gli 800 milioni di affamati entro il 2015, per arrivare poi alla sicurezza alimentare per tutti. Il vertice è stato snobbato dai capi di governo di Stati Uniti ed Europa, eccetto Berlusconi, primo ministro ospitante. Così hanno confermato quanto già si sapeva, cioè che non sono interessati a sconfiggere la fame ma a difendere le politiche agricole dei rispettivi paesi. La fame di un miliardo di persone li aiuta a gestire i difficili problemi agricoli interni, devolvendo agli affamati le loro eccedenze alimentari e dando così una parvenza di legalità e di umanità a un protezionismo agricolo difficilmente giustificabile. L’assenza di tanti capi di Stato rivela anche il disagio di fronte al funzionamento della Fao e alla sua efficacia per affrontare la fame del mondo. I costi dell’Organizzazione sono enormi: globalmente i 3.700 dipendenti costano una media di 321 milioni l’anno ciascuno. Potremmo domandarci: cosa resta per gli affamati? Dopo i vertici come quello di Roma, chi si fa carico di attuare le politiche votate e approvate dai delegati?

Non si tratta di affossare la Fao ma di aggiornarla dopo 50 anni di vita. L’Organizzazione resta uno strumento importante come forum mondiale per uno sviluppo agrario armonico e planetario e per contrastare le multinazionali della alimentazione. Ma dovrebbe diventare molto più aperta alle voci delle Organizzazioni non governative, delle Chiese, di altri organismi impegnati nella lotta per la alimentazione. E dovrebbe essere molto più decentrata.

Durante gli ultimi 50 anni, in Africa sono stati elaborati molti tentativi per alleviare il problema della sottoalimentazione. Esperienze che possono insegnare qualche cosa. Lo sbaglio fondamentale è stato quello di dare il cibo e di non promuovere l’agricoltura. Ho parlato di sbaglio, ma a volte mi domando se non sia stato fatto apposta. Tutti dicono, citando un vecchio adagio cinese: non diamo il pesce ma insegnamo a pescare. Dopo 30 anni di lavoro missionario mi chiedo: chi è veramente interessato a insegnare a pescare? Non è che l’Africa non sappia pescare: le tecniche tradizionali di agricoltura e di zootecnia hanno permesso di vivere per millenni. Ma ora ci vuole un rinnovamento della tecnologia agricola tradizionale. La popolazione si è triplicata negli ultimi 50 anni. Sono urgenti perciò seri e metodici ammodernamenti dell’agricoltura non solo per produrre cibo sufficiente, ma anche per entrare nel mercato dell’alimentazione sia in Africa che nel resto del mondo.

Gli Stati Uniti, che possiedono il monopolio mondiale dell’agricoltura, sono contenti di esportare in Africa milioni di tonnellate di cereali e di cibo, ma si oppongono a rendere l’Africa produttiva e autonoma da un punto di vista alimentare. Un’Africa con un’agricoltura sviluppata sarebbe una concorrente pericolosa per gli Stati Uniti. Ma fin tanto che l’Africa dipende dalle elargizioni statunitensi, camuffate sotto l’egida delle multinazionali della distribuzione delle eccedenze alimentari americane come la World Food Program e la World Vision, in Africa continueremo a essere schiavi, anche se in forme diverse dal passato.

Gli Usa e la Comunità Europea importano moltissimo dall’Africa: uranio, diamanti, legname, petrolio, gas, avorio, pelli e cuoio di vario tipo, frutti tropicali, fiori, oltre che sfruttare con la loro sofisticata industria della pesca i fondali oceanici africani. L’Africa è troppo ricca e Stati Uniti ed Europa troppo dipendenti da essa per lasciarla libera. L’insicurezza alimentare è un’arma tremenda, forse la più formidabile puntata contro l’Africa. Analizziamo alcuni casi.

II Sudan è il paradiso della distribuzione delle eccedenze alimentari americane. E’ lo Stato più esteso dell’Africa, con una superficie più ampia dell’Europa. Le sue potenzialità agricole sono incalcolabili, soprattutto nel sud del paese. E’ vero che buona parte della popolazione come i Denka, i Nuer, i Topossa, sono pastori e quindi non inclini alla agricoltura, ma molte altre tribù hanno una lunga tradizione agricola. Noi missionari, assieme ad associazioni laiche, siamo impegnati a sviluppare l’agricoltura per arrivare ad una vera autosufficienza alimentare. Però la nostra azione è sistematicamente boicottata. La gente sa che in certi mesi il cibo ‘scenderà’ dal cielo, paracadutato dagli aerei americani. Perché lavorare? I sudanesi vengono così demotivati e abituati ad una sopravvivenza da pitocchi.

Noi missionari abbiamo protestato presso l’Onu, che ha una forte presenza a Nairobi. Ma finora senza risultato. Così l’agricoltura locale langue sempre più e anche il mercato interno è crollato. Le elargizioni massicce legate non alla fame ma alla necessità degli agricoltori americani di liberare i silos dalle vecchie eccedenze per far posto ai nuovi raccolti, stracciano i prezzi dei prodotti locali come fagioli, arachidi, mais, ecc. Così l’agricoltura sudanese di oggi è più fragile di dieci anni fa.

Un altro caso riguarda il mais e lo zucchero del Kenya. Gli inglesi nel 1963, quando il paese divenne indipendente, lasciarono una situazione di autosufficienza alimentare che durò fino al 1990. In questi ultimi 10 anni si è avuto il crollo della produzione di entrambi quei prodotti. Perché? Il governo del Kenya è stato costretto, un po’ con la forza e un po’ con la corruzione, ad aprire totalmente le frontiere al mais e allo zucchero americani che vengono venduti a prezzi molto inferiori rispetto al prodotto locale. Conclusione: in dieci anni la produzione di mais e canna da zucchero si è dimezzata. Il mercato interno è praticamente paralizzato, e il Kenya non è più autosufficiente.

Un terzo caso riguarda lo Zimbabwe di Robert Mugabe, un paese che fino a dieci anni fa era considerato il granaio dell’Africa australe. Nel 1980, quando lo Zimbabwe arrivò all’indipendenza, la situazione era viziata da gravi ingiustizie. 6.000 agricoltori bianchi possedevano il 39% del terreno coltivabile e 8.000 coltivatori neri un altro 4% delle terre fertili; il resto della popolazione doveva accontentarsi dei terreni più aridi e meno produttivi. Però c’era nutrimento per tutti e l’agricoltura assicurava una buona occupazione. Che una grande riforma agraria fosse urgente era chiaro; una riforma che non intaccasse però l’alto sviluppo agricolo dei coloni bianchi, che assicurava cibo non solo allo Zimbabwe ma anche un buon mercato per il resto dell’Africa, portando nelle casse dello Stato moneta pregiata. Cos’ha fatto Mugabe? Per vent’anni ha lasciato languire la riforma agraria, poi, quando alla vigilia delle elezioni del 2001 si è reso conto che avrebbe perduto, ha lasciato via libera alle invasioni violente delle fattorie da parte dei suoi ex-commilitoni di guerriglia. Le conseguenze sono note: insicurezza, distruzioni e caos; la produzione del mais è scesa dai quasi 2 milioni di tonnellate all’anno alle attuali 700.000, la disoccupazione è salita al 60% e l’inflazione al 116%. Oggi lo Zimbabwe si aggiunge alla lista delle nazioni affamate, mentre 10 anni fa era un buon esportatore di prodotti alimentari. Demagogia, incompetenza e corruzione non producono cibo e tanto meno sviluppano la agricoltura.

Gli ultimi dieci anni hanno visto un notevole sviluppo degli Ogm, gli organismi geneticamente modificati. Gli Usa hanno investito miliardi di dollari per sviluppare tale tecnologia. Ma oggi si moltiplicano i dubbi sull’uso di tali prodotti. Ovunque cresce la domanda di prodotti biologicamente sicuri e testati. Dove vanno gli Stati Uniti a vendere o a sistemare tutta la loro produzione di cibo geneticamente modificato? Il terzo mondo affamato - Africa, Asia e America Latina - è il mercato ideale. Se poi tali cibi causano malattie, questa non è certo la preoccupazione maggiore del presidente Bush, l’importante è smaltire i prodotti geneticamente modificati coltivati in tante fattorie americane ma che gli stessi americano non vogliono più.

La signora Ann Brenneman, che ha rappresentato Bush al vertice Fao di Roma, ha difeso gli ogm come risposta alla fame del mondo. Per gli Stati Uniti il vertice Fao è stato una passerella per propagandare i loro prodotti geneticamente modificati, sostenuta dalla solita Inghilterra di Blair ma fortemente criticata da Prodi, dalla Unione Europea e dalla maggior parte dei delegati.

L’unica preoccupazione di Bush e delle multinazionali che lo hanno messo al potere, è quella di difendere gli interessi americani a ogni costo. E per farlo non ha esitato a stracciare gli accordi di Kyoto per ridurre l’inquinamento atmosferico, firmati dal suo predecessore Bill Clinton. Gli Stati Uniti sono responsabili da soli dell’80% dell’attuale inquinamento, mentre l’Africa solo del 2%. Poi ci vogliono far credere che Bin Laden è il pericolo numero uno per l’umanità! Il pericolo maggiore per due terzi dell’umanità è rappresentato dagli Stati Uniti, se non cambiano profondamente la loro politica basata sul profitto finanziario e l’imposizione del loro diktat neoliberista. E lo sanno! Perché ora si stanno opponendo a una Corte Penale Internazionale? Perché potrebbero essere tra i primi a cadere nelle maglie di un simile organismo di giustizia che persegue i crimini contro l’umanità. Per gli Stati Uniti la fame è un’arma importante che non sono disposti a deporre, anche se è un’arma criminale che gronda sangue.

La prima riposta alla fame è nelle mani degli stessi africani. Bisogna rilanciare l’agricoltura, ridandole dignità e prestigio. I governi africani degli anni ‘70 e ‘80 hanno investito molto sulla industrializzazione, mentre l’agricoltura è stata completamente dimenticata. Tale politica ha diffuso la convinzione che l’agricoltura e la zootecnia siano solo per gli analfabeti e gli ignoranti, per chi non è interessato alla modernità e a nuovi stili di vita. Per gli anziani e per le donne. Gli altri, che sono interessati a un futuro diverso, devono abbandonare la terra per migrare nella città, a gonfiare ancora di più le già sovrappopolate baraccopoli. Tale mentalità va urgentemente corretta. Impresa non impossibile, dato che in Africa il 60% della gente vive ancora nella campagna e ha un forte legame con la terra. I bantù, che sono il gruppo più esteso e numeroso dell’Africa subsahariana, hanno una grande tradizione agricola su cui si possono facilmente innestare nuovi sviluppi.

Altra pista è di sviluppare la collaborazione fra esperienze positive europee e africane. Il vero aiuto non è nel mandare cibo europeo nel continente, ma nel condividere esperienze agricole positive europee, contestualizzandole in Africa. E’ quanto cerchiamo di fare in Kenya noi della Università Cattolica con il nostro Istituto Agricolo di Molo e alcune esperienze agricole in Italia e in Irlanda. Noi diciamo di no agli Ogm, ma dobbiamo lavorare molto sulla ricerca agricola per scoprire nuovi semi più adatti ai climi aridi africani. E questo vale anche per gli incroci nel campo zootecnico e per la fertilizzazione assistita, che consente di aumentare la produzione del latte e della carne e accresce la resistenza degli animali al clima e ai parassiti. Il partenariato, però, esige pari dignità fra i partner e rifiuta i diktat. Le risposte ai problemi si devono cercare e sperimentare assieme, nessuno le possiede prefabbricate. Siamo sfortunatamente ancora all’inizio di questo genere di collaborazioni, che non solo moltiplica il cibo, ma promuove anche la dignità di tutti.

La terza pista riguarda una capillare educazione civica e agricola degli abitanti delle zone rurali, per promuoverli sia come cittadini che come agricoltori. Il mondo agricolo in Africa è ancora al margine della vita politica delle nazioni. Gli agricoltori non si rendono conto del loro peso politico e non sanno fare arrivare la loro voce a livello comunale, regionale e nazionale. Pagano le tasse, ma niente è reinvestito per la promozione del mondo agricolo.

Il passo successivo riguarda la costituzione di una organizzazione settoriale, sia sindacale che economica. Il mondo agricolo africano è ancora tremendamente frazionato, ognuno si difende come può senza un piano con priorità e metodologia.

Non solo educazione civica insomma, ma anche agricola. Con poco si possono fare grandi passi in avanti migliorando la produzione, la conservazione e il mercato dei prodotti. L’educazione civica e agricola potrebbe essere capillarmente diffusa dalle comunità cristiane che sono distribuite in tutto il paese in modo veramente capillare e sono abbastanza capaci di unire il tradizionale e il culturale con la novità che può venire dall’estero.

La Chiesa ha inoltre una credibilità che potrebbe avere ragione della rigidità e della resistenza al cambiamento che spesso si trovano nelle aree rurali. E’ un peccato che tante comunità cristiane, siano esse diocesi o parrocchie o comunità ecclesiali di base, ignorino il loro potenziale sociale e si accontentino solo di celebrazioni religiose.

Occorre, infine, investire di più nella ricerca scientifica per promuovere un’agricoltura più adatta al continente.

Ci sono ormai esperienze validissime sia in alcune parti dell’Africa che in America Latina, India e Cina. Alcune radio internazionali come l’inglese BBC, l’olandese Radio Netherlands e la tedesca Deutsche Welle le stanno già facendo conoscere. Ma si potrebbe fare di più. Internet in un modo, i video e altri strumenti audiovisivi in un altro, potrebbero facilitare la condivisione e la diffusione di tali esperienze positive.

Sì, abbiamo tutti gli strumenti per vincere la fame. Purché lo si voglia!