Perché servono le primarie
...e perché non le vogliono. Una risposta all’editoriale di Renato Ballardini (Leaders).
Sono tra coloro che auspicano che il Trentino sia governato, nella prossima legislatura, da una classe dirigente diversa da quella attuale, per il banale motivo che ritengo che questa abbia governato male e che, dunque, non sia salutare affidarsi ad essa per altri cinque anni. Per carità: in alcuni casi capita che si governi male perché, nelle condizioni date, non si può far di meglio, ma qui siamo di fronte ad una Giunta provinciale che si trovava in condizioni ideali per fare qualcosa di buono ed invece si è impegnata alacremente per far danni. Riconfermarla significherebbe spronarla a continuare su questa stessa strada o addirittura a far peggio, poiché il messaggio che essa ne ricaverebbe sarebbe che questo modo di governare piace ai cittadini.
Essendo un sostenitore del centro-sinistra vorrei però evitare, ove possibile, di dover esprimere il mio dissenso nei confronti del governo uscente come elettore, votando uno schieramento diverso. Per questo motivo mi batto, nel centro-sinistra, affinché questa coalizione sostituisca la propria classe dirigente prima delle elezioni e si presenti al voto con una proposta nuova.
Fin qui siamo nell’ambito dei normali processi politici che avvengono in qualsiasi democrazia: è normale che vi siano, anche all’interno dello stesso schieramento, giudizi diversi sul governo uscente che tale schieramento ha espresso; ci si confronta apertamente, nel rispetto delle idee altrui, ed alla fine si sceglie, democraticamente, su come presentarsi alle elezioni.
Ma quali strumenti ha oggi a disposizione, un sostenitore del centro-sinistra trentino, per far valere la propria voce? Per fare un esempio: qual è il luogo nel quale oggi, in Trentino, un sostenitore del centro-sinistra può votare se nel programma della propria coalizione si dirà sì o no alla Pi.Ru.Bi.? E considerato che col nuovo meccanismo elettorale il futuro Presidente avrà un tale potere da poter imporre qualunque sua scelta, anche prescindendo dagli accordi programmatici concordati prima delle elezioni, e che pertanto la scelta del leader equivale alla scelta del programma, qual è il luogo nel quale un sostenitore del centro-sinistra può concorrere alla scelta del suo leader?
Stiamo parlando di un basilare diritto democratico, il diritto di partecipare alla politica, riconosciuto a tutti i cittadini in ogni democrazia. Poco importa se il sistema elettorale è proporzionale o maggioritario, o se i partiti sono due o duecento. In tutte le democrazie, iscrivendosi ad un partito (o partecipando alle primarie, che poi sono nient’altro che un congresso di partito, con l’unica differenza che è la legge a fissarne le regole), i cittadini acquisiscono il diritto di scegliere il gruppo dirigente e la linea politica coi quali il partito al quale si iscrivono si presenta alle elezioni.
Qui invece, iscrivendosi ad un partito, un cittadino non può concorrere né a sceglierne il leader (perché è quello della coalizione), né a sceglierne il programma (perché è anch’esso quello della coalizione, ancorché abbia senso distinguere tra scelta del leader e del programma).
Tutt’al più, si può partecipare a scegliere quale sarà il rappresentante del proprio partito che andrà a sedersi al tavolo di contrattazione della coalizione, ove siedono altri quindici segretari di partito. Ma ripeto: dov’è che un sostenitore del centro-sinistra può votare sì o no alla Pi.Ru.Bi.?
Nel congresso della sezione "Alta Valsugana" del proprio partito, tenutosi due anni prima delle elezioni, dove si sceglie un segretario la cui linea politica non può che essere "sulla Pi.Ru.Bi. la decisione spetta alla coalizione"? Ma non scherziamo!
Aggiungo: con l’iscrizione ad un partito non si può neppure concorrere a sceglierne il gruppo dirigente che siederà nelle istituzioni, poiché la scelta della lista dei candidati è vanificata dal sistema delle preferenze (che sopravvive ormai solo in Italia).
Morale: l’iscrizione ad un partito si riduce ad una sorta di atto di fede (verso valori peraltro sempre più vaghi), o ad un’elemosina alla sua organizzazione (di cui è peraltro sempre meno chiara la finalità). Ma non dà diritto a un bel nulla.
E se dunque ai cittadini non è riconosciuto il diritto di partecipare alla politica, allora la politica chi la fa? Di fatto, siamo di fronte ad un gruppo dirigente sottratto al controllo della base. Per dirla in maniera esplicita: la politica rimane appannaggio di una casta autoreferenziale (Nanni Moretti la chiamerebbe "burocràcsia").
Per il problema delle preferenze non ci si può far niente, se non si cambia il sistema elettorale (in verità si potrebbe selezionare una testa di lista, ma la sua efficacia è aleatoria).
Molto invece si potrebbe fare, anche con questo sistema elettorale pasticciato, per riconoscere ai cittadini il diritto di partecipare alla scelta del leader e del programma della propria parte politica,che col nuovo sistema sono poi le due cose che contano davvero. Non è difficile: basterebbe istituire un soggetto politico della coalizione, offrire a tutti i cittadini il diritto di farne parte iscrivendosi e riconoscere agli iscritti il potere di scegliere leader e programma attraverso un banale congresso. E’un’idea così rivoluzionaria? No, è l’acqua calda. L’anomalia sta dall’altra parte, nell’attuale sistema che vede le scelte appannaggio di una ristretta casta.
Il problema esiste, come noto, in tutt’Italia, da quando è stato introdotto il pasticcio del maggioritario a metà. Ma se è in Trentino che il problema del rapporto tra la base ed il vertice è esploso in maniera così lampante, è probabilmente perché la base è insoddisfatta di questo suo attuale vertice.
A chi spetta la decisione di riconoscere ai sostenitori del centro-sinistra il diritto di scegliere leader e programma? Ai titolari dei simboli, cioè ai partiti della coalizione. Vale a dire ai loro rappresentanti, i segretari di partito.
Ora a me pare abbastanza normale che i segretari di partito si oppongano all’idea di delegare alla base dei sostenitori un potere che attualmente appartiene loro. E non tanto, o quanto meno non solo perché nessuno regala volentieri ad altri il potere. Quanto piuttosto perché i segretari di partito fanno parte essi stessi del gruppo dirigente uscente. Insomma, non si tratta solo della riluttanza a spogliarsi di un potere cruciale: c’è soprattutto la paura che, aprendo un confronto democratico, i sostenitori del centro-sinistra li caccino via. Un gruppo dirigente che avesse governato bene e che per questo motivo si sentisse appoggiato dalla propria base, non avrebbe alcuna paura di sottoporsi al suo giudizio, ma al contrario vedrebbe in tale processo uno strumento per rafforzare ulteriormente la propria immagine.
Qui invece il gruppo dirigente uscente sente a tal punto di avere la coda di paglia, ha a tal punto una fifa blu dei giudizi della propria base, che prima ancora che qualcuno si levasse a chiedere l’apertura di un confronto democratico, e a ben un anno e mezzo dalle prossime elezioni, aveva già messo le mani avanti riconfermando il leader (e assieme a lui anche se stesso), chiudendo a priori ogni possibile dialettica: "è già tutto deciso, non c’è nulla su cui discutere".
La situazione è piuttosto anomala. Non ha infatti eguali in alcun paese democratico, per il semplice motivo che questa situazione è determinata dal nostro particolare sistema elettorale, che vede i partiti presentarsi alle elezioni al contempo alleati e concorrenti tra loro.
In casi come questi, se si votasse col proporzionale, coloro che criticano il gruppo dirigente del proprio schieramento e si vedono negato il diritto di partecipare alla politica, fonderebbero un altro partito e andrebbero alla conta degli elettori. Ma in un sistema bipolare, le velleità scissioniste sono penalizzate in partenza: sta proprio qui l’arma di contrattazione più formidabile della "burocràcsia".
Tuttavia, se ai sostenitori del centro-sinistra trentino viene negato il basilare diritto di concorrere con le proprie idee a determinare la politica (come recita l’articolo 49 della Costituzione), ad essi rimane da fare solo una di queste due cose.
La prima è quella di fondare ugualmente, pur sapendo di dover lottare anche contro il sistema elettorale, una propria formazione politica, correndo consapevolmente il rischio di consegnare il governo nelle mani dello schieramento avversario: ma d’altronde, cosa hanno da perdere? Se i vertici si oppongono alla via riformista per cambiare la politica, non rimane che la via rivoluzionaria: scalzarli mandandoli all’opposizione, tentando la pur difficilissima impresa di conquistare da soli il governo, con un nuovo gruppo dirigente.
La seconda strada è quella di arrendersi al diktat dei vertici, accettando di rinunciare al diritto di partecipare alla politica. Vale a dire fare un passo indietro e ritirarsi nel ruolo di semplici cittadini/elettori, che la politica, anziché farla, la giudicano soltanto. In questo secondo caso, si sarà liberi dall’obbligo di votare la propria parte politica e ci si comporterà come farebbe un qualsiasi cittadino, che alle elezioni vota l’uno o l’altro schieramento secondo il giudizio che egli dà del governo uscente. Pertanto, i sostenitori del centro-sinistra che danno un giudizio negativo sul proprio gruppo dirigente uscente, alle prossime elezioni dovrebbero votare centrodestra.
Come si sarà capito, non concordo con le argomentazioni fatte da Renato Ballardini sullo scorso numero di QT (Leaders).
Riassumo brevemente i tre concetti chiave del suo ragionamento.
Primo. Il candidato del centrosinistra per la Presidenza della Provincia, da presentare alle elezioni provinciali del prossimo anno, non può che essere scelto attraverso la tradizionale contrattazione tra le segreterie di partito: ogni altro metodo (primarie, congresso del centrosinistra, ecc.) è velleitario, perché inadatto alla nostra democrazia ancora adolescente.
Secondo. Allo stato attuale c’è in campo un solo candidato per ricoprire il ruolo di leader del centro-sinistra, Lorenzo Dellai: se qualcuno vuole scalzarlo lo dica esplicitamente, anziché nascondersi dietro il paravento dei metodi per la selezione delle candidature.
Terzo. Dellai è in difficoltà perché la coalizione di centro-sinistra è formata da partiti molto diversi tra loro e dei quali è pertanto difficile fare la sintesi: è dunque normale e finanche inevitabile che una parte o l’altra della coalizione non si senta pienamente rappresentata dal leader e che, di conseguenza, giunga a manifestare pubblicamente questo disagio.
Parto dall’ultimo punto. A me non pare si sia di fronte ad una spaccatura tra il centro e la sinistra della coalizione, bensì ad una spaccatura tra base e vertice. Le varie componenti di questa coalizione, infatti, nel corso di questa legislatura si sono dimostrate compatte. Ed il fatto che oggi facciano quadrato attorno al leader ne è la più lampante dimostrazione.
Per fare un paragone, nella Giunta Andreotti/Alessandrini, che tutto sommato stava governando bene, o quanto meno tentava di farlo, è bastato uno sbandamento quasi impercettibile di una parte ultra-minoritaria della maggioranza per provocare (a mio giudizio fin troppo precipitosamente) la rottura definitiva dell’alleanza. Qui, invece, con una Giunta che governa male, lo sbandamento complessivo dell’intera coalizione su questioni cruciali non ha fatto emergere neppure la minaccia, non dico della crisi, ma nemmeno della messa in discussione degli assetti ed, oggi, della leadership. Pertanto, Dellai e Pinter, Betta e Bondi, Muraro e Berasi, ad essere onesti hanno pari responsabilità. Le divisioni interne di questo ceto dirigente sono balle da telenovela. E la si smetta di credere a chi getta ogni colpa solo su Dellai e poi lo riconferma nel ruolo di leader.
Ma neppure le critiche che provengono dalla base, ossia da coloro che non hanno fatto parte di questo gruppo dirigente, possono essere a mio giudizio definite "di sinistra".
Contestare l’elargizione di contributi pubblici a pioggia alle imprese private sarebbe una cosa "di sinistra"? Contestare l’ampliamento della presenza diretta dell’ente pubblico nella gestione di servizi che potrebbero essere lasciati all’iniziativa privata, sarebbe una cosa "di sinistra"? Schierarsi contro la dispersione di enormi quantità di danaro dei contribuenti, per realizzare gigantesche opere pubbliche economicamente in perdita e di comprovata inutilità, al solo scopo di far affluire quei fondi nelle tasche delle imprese amiche, sarebbe una cosa "di sinistra"? Battersi contro il protezionismo provinciale e chiedere maggiore concorrenza nel mercato sarebbe una cosa "di sinistra"? Accusare questa maggioranza di aver consegnato le commissioni legislative nelle mani dell’opposizione, provocando la paralisi legislativa, al solo scopo di assicurarsi una carica in più, quella di Presidente del Consiglio provinciale, sarebbe una cosa "di sinistra"? Francamente: no.
Sarebbe allora la tutela dell’ambiente, la grande vittima di questa legislatura, ad essere una cosa "di sinistra"? Ne parlavo, giusto sabato scorso, col "compagno" Claudio Taverna: riflettevamo assieme sul fatto che a Milano la raccolta differenziata della parte organica dei rifiuti è stata introdotta dieci anni fa da Marco Formentini, che a Treviso la raccolta differenziata è già oltre il 50 per cento grazie all’impegno della Cdl (che non sta per "Casa dei leninisti"), mentre in Trentino la Giunta di centrosinistra, con l’assessore dei Verdi, non è andata oltre il 16 per cento. Riguardo poi alla scelta tra gomma o rotaia per il traffico di transito delle merci lungo le Alpi (vedi Pi.Ru.Bi.), le posizioni della Svizzera, dell’Alto Adige, del Tirolo e della Baviera, diametralmente opposte a quelle espresse dal governo provinciale trentino, difficilmente possono essere considerate il frutto dell’avversione allo sviluppo economico e dell’ideologia pauperista dei governi di quelle regioni, non certo invincibili roccaforti della socialdemocrazia europea!
Riguardo al secondo punto, ossia il fatto che attualmente il centro-sinistra trentino avrebbe come unico suo possibile leader Lorenzo Dellai, l’argomentazione di Ballardini mi pare tendenziosa. Perché il problema non è quello di chiedersi se ci sono altri leader in campo, bensì il giudizio che si dà del leader uscente (e del gruppo dirigente che lo ha attorniato). Se il giudizio sul leader è negativo, allora ci s’impegna per trovarne un altro, considerato che alle elezioni manca ancora ben un anno e mezzo, non due mesi. Sostenere che non ve ne sono in circolazione, come fa il gruppo dirigente uscente con malcelato interesse privato, equivale a promuovere quello di oggi. Certo non potremo aspettarci che un nuovo nome emerga dalla riunione dei segretari di partito: non ne hanno alcun interesse. Ma nomi in circolazione ce ne sono eccome, a meno di non ritenere che requisito fondamentale di un qualsiasi leader debba essere quello di aver fatto parte del gruppo dirigente che ha governato in questa legislatura. C’è bisogno di essere più espliciti? Ecco: Bernabè, Demattè, Egidi, Bonvicini, Piccoli, Kessler, Fabbrini, Pegoretti, Moreni, Passerini, Micheli, Zobele, eccetera, eccetera, eccetera. Lo stesso Renato Ballardini, diciamolo, sarebbe un candidato eccellente.
Infine, la questione secondo cui le decisioni sul leader e sul programma spettano necessariamente ai segretari di partito, perché la nostra democrazia ancora giovane non sarebbe ancora pronta ad affrontare metodi più democratici. E chi lo dice? I segretari di partito?
A me pare invece, come ha detto anche Sergio Fabbrini, che un congresso dei sostenitori della coalizione sia uno strumento connaturato con questa legge elettorale bipolare. Se non siamo pronti per questo, allora non lo siamo neppure per la democrazia bipolare. Ma di questo passo, tra non molto verranno a dirci che la nostra democrazia è ancora troppo giovane per il suffragio universale!