Capaci: quella strage che cambiò la storia italiana
L’uccisione di Giovanni Falcone provocò uno scossone nella politica italiana, che cominciò a trovare il coraggio di voltare pagina rispetto agli anni dello Stato corrotto e mafioso.
Il 23 maggio di dieci anni fa una tonnellata di tritolo, piazzata dalla mafia sotto l’autostrada Palermo-Punta Raisi all’altezza dello svincolo di Capaci, uccideva il giudice Giovanni Falcone, sua moglie (anch’essa magistrato) Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Antonio Montinari, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
Se dovessimo segnare nel calendario, con una data precisa, uno spartiacque simbolico della storia politica italiana, per distinguere tra "prima" e "dopo", ebbene quella data sarebbe il 23 maggio 1992.
"Prima" c’era l’Italia della democrazia bloccata, delle stragi di Stato, degli intrighi, della P2, del debito pubblico fuori controllo, della partitocrazia, della corruzione dilagante al punto da condizionare la vita democratica, dello Stato connivente con la mafia, della Cassazione che annullava i processi e dei procuratori che insabbiavano le inchieste. "Dopo" c’è stata l’Italia nella quale ci troviamo ancor oggi, piena di contraddizioni, in perenne transizione verso il sogno della democrazia matura, costantemente contesa tra spinte innovatrici e tentazioni restauratrici.
Quando Falcone fu ucciso i segnali di crisi del vecchio sistema erano in realtà già evidenti.
Il 3 febbraio del 1991 veniva mandato in pensione il PCI, la cui esistenza aveva per mezzo secolo legittimato l’anomalia italiana di una democrazia senza alternanza al governo. Il 9 giugno di quello stesso anno milioni di italiani si ribellarono all’invito ad "andare al mare" rivolto loro dal segretario del PSI Bettino Craxi, e si recarono a votare il referendum sulla preferenza unica promosso da Mario Segni, che si trasformò in una sorta di referendum contro il vecchio sistema dei partiti. Il 17 febbraio del 1992 Antonio Di Pietro faceva arrestare il socialista Mario Chiesa, direttore del Pio Albergo Trivulzio di Milano, dando avvio all’inchiesta di Mani Pulite che avrebbe scoperchiato la gigantesca e maleodorante pentola della corruzione politica italiana. Il 5 aprile, alle elezioni politiche, il quadripartito DC-PSI-PSDI-PLI (il PRI aveva abbandonato la coalizione di governo l’anno precedente) uscì pesantemente ridimensionato, sebbene riuscì a conservare, per un soffio, la maggioranza in Parlamento. Il neonato PDS aveva subito un tracollo, raccogliendo poco più della metà dei voti del vecchio PCI, mentre nel nord Italia era esploso il fenomeno della Lega, guidata dallo sconosciuto "senatùr" Umberto Bossi. Nel frattempo, i conti dello Stato stavano per raggiungere il collasso e, nella generale indifferenza, l’Italia si stava avviando verso una catastrofica bancarotta finanziaria.
Eppure, nonostante questi palesi segnali di crisi, il 23 maggio del 1992 l’Italia appariva ancora solidamente nelle mani del CAF, l’alleanza tra Craxi, Andreotti e Forlani (allora potentissimo segretario democristiano), siglata qualche anno prima all’interno di un camper. Ed il dibattito politico sembrava un teatrino nel quale, per distogliere l’attenzione dai problemi veri, si parlava d’altro.
Per due anni i partiti si erano azzuffati sulle "picconate" di Cossiga, e gli argomenti che avevano tenuto banco nella campagna elettorale erano nientemeno che le lettere di Togliatti ed il cosiddetto piano Gladio, ossia i comportamenti che DC e PCI avevano tenuto durante il periodo più buio della Guerra Fredda, negli anni ‘50. Achille Occhetto, segretario del PDS, in vista delle elezioni aveva tentato di siglare un accordo con Craxi, ma questi gli aveva contrapposto un patto pre-elettorale con la DC. Mario Chiesa era stato immediatamente espulso dal PSI e svillaneggiato da Craxi, che l’aveva definito un "mariuolo", mentre gli avvisi di garanzia ai socialisti Tognoli e Pillitteri ed al segretario amministrativo della DC Severino Citaristi non sembravano impensierire più di tanto i manovratori.
In quel clima di allegra spensieratezza da Stato libero di Bananas, l’Italia era senza un Presidente della Repubblica (alla conclusione del suo mandato, il 28 aprile 1992 Francesco Cossiga aveva rassegnato le dimissioni da Capo dello Stato) e senza un Presidente del Consiglio. Ma i giochi sembravano fatti. Dopo il settennato del cattolico Cossiga e cinque governi consecutivi a guida DC (Fanfani, Goria, De Mita e i due governi Andreotti), Craxi rivendicava per un laico, cioè per se stesso, una carica di vertice, il Quirinale o Palazzo Chigi. L’altro scranno sarebbe andato ad Arnaldo Forlani o allo stesso Andreotti.
Alla vigilia della strage di Capaci si era raggiunto l’accordo per Forlani al Quirinale e Craxi a Palazzo Chigi. Nel frattempo, nel Governo in scadenza guidato da Andreotti, sedevano Ministri del calibro di Calogero Mannino, Vincenzo Scotti, Paolo Cirino Pomicino (‘O Ministro), Giovanni Prandini e (Sua Sanità) Francesco De Lorenzo.
Eppure, nel Parlamento riunito in seduta comune per eleggere il Capo dello Stato, il CAF stava incontrando qualche difficoltà, a causa degli scontri fra le correnti democristiane guidate dall’andreottiano Pomicino e dal doroteo Antonio Gava. I franchi tiratori impallinavano in continuazione i candidati al Colle ed in un’occasione Forlani mancò l’elezione per soli 39 voti.
Poi, alle 17 e 58 di sabato 23 maggio, Giovanni Brusca azionò il pulsante che provocò "l’attentatone" (come lo definirono gli stessi mafiosi). "E’ morta la Repubblica" - titolò un giornale. E invece la Repubblica risorse.
Dopo un giorno di pausa, il 25 maggio il Parlamento elesse al Quirinale, al primo tentativo, il candidato lanciato da Marco Pannella, il fervente cattolico ma fedele servitore dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, che ricopriva la carica di Presidente della Camera.
Il 18 giugno Scalfaro se ne infischiò della partitocrazia ed affidò a Giuliano Amato, anziché a Bettino Craxi, l’incarico di formare un nuovo Governo.
Entro la fine dell’anno Amato avrebbe varato una gigantesca operazione di risanamento del debito pubblico (con due manovre finanziarie per complessivi 120.000 miliardi), avrebbe introdotto la minimum tax per combattere l’evasione fiscale, avrebbe costruito l’accordo tra le parti sociali per il superamento della scala mobile, avrebbe abolito le baby pensioni, avrebbe trasformato le aziende di Stato in società per azioni e dato avvio alla più grande opera di privatizzazioni e liberalizzazioni della storia di un Paese occidentale, tagliando l’erba sotto i piedi alla corruzione che prosperava nello Stato-imprenditore. La composizione del Governo Amato rifletteva ancora, in buona parte, la logica della prima Repubblica, ma quello era un periodo nel quale, a causa del sostegno dell’opinione pubblica all’opera dei magistrati di Milano, bastava un avviso di garanzia per costringere un Ministro alle dimissioni.
Il Ministro dell’Interno nominato da Amato, il democristiano Nicola Mancino, dopo l’omicidio di Paolo Borsellino e della sua scorta (avvenuto il 19 luglio con un’autobomba piazzata a Via d’Amelio a Palermo), intraprese una spietata guerra contro la mafia, che nel volgere di breve tempo avrebbe portato in carcere quasi l’intero vertice della cupola siciliana. Il 6 settembre finì in manette il numero due della mafia Giuseppe Madonia. Il 15 gennaio 1993 fu catturato il capo dei capi di Cosa Nostra, Salvatore Riina, detto "Totò u Curtu". Il 18 maggio 1993 (Presidente del Consiglio era Ciampi, ma Ministro dell’interno era ancora Mancino) fu arrestato Benedetto "Nitto" Santapaola. E così lungo tutti gli anni ’90, sotto gli occhi quasi increduli dell’opinione pubblica: il 24 giugno 1995 Leoluca Bagarella, il 21 maggio 1996 il killer di Falcone Giovanni Brusca (grazie ad un’inchiesta guidata da Ilda Bocassini, il magistrato al quale l’attuale Governo Berlusconi ha revocato la scorta, salvo ripristinarla dopo l’omicidio di Marco Biagi), il 6 giugno 1997 Pietro Aglieri.
Rimane da chiedersi per quale motivo il vertice di Cosa Nostra commise il fatale errore di assassinare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, firmando la propria condanna.
La spiegazione può forse essere cercata in quel clima da fine dell’impero che aveva contrassegnato gli ultimi anni della prima Repubblica, nella fine del "pericolo comunista" che aveva liberato l’opinione pubblica e fatto montare l’insofferenza verso il vecchio sistema. In sostanza, quella parte del potere dello Stato colluso con la mafia non era più in grado di rispettare i patti siglati con le "famiglie" siciliane.
Nel 1991 Giovanni Falcone, deluso dallo smantellamento, per opera del Procuratore capo di Palermo Giammanco, del pool antimafia costituito all’inizio degli anni ’80 da Rocco Chinnici (assassinato dalla mafia) e ripreso dall’anziano Antonino Caponnetto, accettò l’offerta del Ministro della Giustizia Claudio Martelli di trasferirsi a Roma come direttore degli Affari Penali del Ministero, per lavorare al progetto dell’istituzione di una Procura Nazionale Antimafia.
Il contributo di Giovanni Falcone nella lotta al crimine mafioso, oltre all’innovazione delle indagini bancarie, fu infatti proprio quello di aver scoperto, grazie alla sua esperienza professionale e grazie alle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, che la mafia ha una struttura centralizzata e piramidale, ossia, per l’appunto, una "cupola". Ma per la giustizia di allora la cupola non esisteva, era il frutto delle fantasie dei "professionisti dell’antimafia" (come Leonardo Sciascia, in una delle sue più infelici dichiarazioni, ebbe a definire i magistrati del pool palermitano). Cosicché le inchieste sui singoli delitti venivano assegnate a magistrati e a procure diverse, senza alcun coordinamento, perdendo di vista il quadro complessivo e senza la possibilità di perseguire i mandanti. Dopodiché, a Roma, ci pensava il giudice Corrado Carnevale, presidente della prima Corte penale di Cassazione, ad annullare, sollevando fantomatici vizi di forma, anche quelle poche condanne che si riusciva ad infliggere. Inoltre, fino al 1991 in Italia mancava addirittura una legislazione per proteggere i pentiti, tanto che a Tommaso Buscetta fu sterminata l’intera parentela.
Per la scelta di lavorare col socialista Martelli, Falcone fu accusato di tradimento dai suoi vecchi amici, per essersi venduto al potere politico (rimase celebre la polemica con Leoluca Orlando), ed il suo progetto di istituire un coordinamento delle indagini sulla mafia fu bollato, da una parte della sinistra e da un certo conservatorismo presente nella magistratura, come un tentativo di limitare l’indipendenza dei magistrati inquirenti.
In realtà, l’idea di Falcone era quella di introdurre per legge quell’unitarietà delle indagini che gli intrighi palermitani avevano sino allora impedito.
Quel 1991 segnò una svolta nella lotta dello Stato alla mafia. Fu varata la legge sui pentiti, ma soprattutto, il primo marzo 1991, Falcone propose a Martelli, e questi firmò, il decreto retroattivo che consentì di riportare in cella 41 boss mafiosi, scarcerati per scadenza dei termini di custodia cautelare.
Per Cosa Nostra, quell’atto rappresentò la rottura dei patti col potere politico. Di qui la decisione di vendicarsi.
La conferma della rottura dei patti ci fu il 30 gennaio 1992, quando, quasi a sorpresa, la Corte di Cassazione confermò le condanne dei boss al maxiprocesso. Il capo della corrente andreottiana della DC in Sicilia, l’onorevole Salvo Lima, che secondo i pentiti aveva promesso l’intervento del Governo sulla Corte per far annullare le sentenze, fu assassinato il successivo 12 marzo.
Da questo quadro emerge come all’inizio degli anni ’90 il potere politico di allora fosse tutt’altro che compatto, bensì diviso e contraddittorio al suo interno (al punto che il Trattato di Maastricht fu approvato il 17 aprile 1992, dopo le elezioni politiche, da un Governo in ordinaria amministrazione).
Di queste contraddittorietà fecero le spese proprio Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo stesso Falcone ebbe a dire che "si muore generalmente perché si è soli o perché si entrati in un gioco troppo grande. Si muore perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato, che lo Stato non è riuscito a proteggere".
Falcone aveva accumulato tutte queste cose assieme. La sua carriera fu contrassegnata non già da successi, come oggi raccontano certe commemorazioni ipocrite, bensì da delusioni, sconfitte e continue "trombature" (la definizione è di Ilda Bocassini). Lo Stato non riusciva a proteggerlo e, dopo la decisione di trasferirsi a Roma, gli era venuto a mancare il sostegno anche delle persone fino allora a lui più vicine.