“Giusto processo”: il diritto al silenzio
In quali casi il “pentito” può impunemente rifiutare di testimoniare?
Non è facile valutare la legge approvata il 14 febbraio 2001 dalla Commissione giustizia della Camera in sede legislativa, in attuazione dell’art. 111 della Costituzione sul "giusto processo". Nel faticoso iter parlamentare al Senato e alla Camera si sono manifestate profonde divergenze tra gli schieramenti politici e fra le due Assemblee.
La Presidente della Commissione giustizia ha dichiarato che "Senato e Camera si sono ispirati a due diverse concezioni del processo penale". Ciò nonostante la legislatura è riuscita a varare la legge attuativa del giusto processo, legge che per le ragioni dette non può che essere una soluzione di compromesso fra esigenze e opinioni opposte. Mi limiterò ad alcune osservazioni.
Come è noto, la Costituzione nell’art. 111 riformato stabilisce le caratteristiche del giusto processo: parità fra accusa e difesa, giudice terzo e imparziale, formazione della prova in dibattimento e in contraddittorio. La regola generale della prova è che "la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore" (art.526 cpp e art. 19 legge 14-2-2001).
Nella pratica ciò riguarda essenzialmente i "pentiti", che più correttamente dovrebbero essere chiamati collaboratori di giustizia: costoro, che hanno reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di terze persone durante le indagini preliminari, per esempio al Pubblico Ministero, possono avvalersi della facoltà di non rispondere al dibattimento. Nel caso che le dichiarazioni accusatorie non vengano ripetute in aula, di fronte al giudice terzo e imparziale e in pubblico contraddittorio, non possono essere utilizzate come elemento di prova e si annullano. Ciò accadeva prima della legge 14-2-2001 e, purtroppo, accade anche ora, almeno in parte.
Le indagini e i processi che più hanno utilizzato i "pentiti" sono quelli di mafia, di corruzione (tangenti), di falso in bilancio, di traffico di stupefacenti, di riciclaggio di denaro sporco. E’ spesso accaduto che il "pentito" imputato nello stesso processo, o in processo connesso o collegato, dopo aver reso dichiarazioni precise e circostanziate durante le indagini preliminari (ai Carabinieri, alla Polizia o al Pubblico Ministero), al dibattimento invece si rifiutava di rispondere. In tal modo le accuse cadevano, i processi venivano azzerati e dovevano ricominciare da capo, sperando che nel frattempo non intervenisse la prescrizione (come è accaduto - per fare esempi illustri- per Craxi e per Berlusconi). Con la nuova legge il garantismo meramente strumentale finalizzato all’assoluzione dell’imputato (anche se colpevole), è stato in parte superato avendo il Parlamento ridotto l’area del diritto al silenzio, sia pure in modo parziale e contraddittorio.
D’ora innanzi l’indagato deve essere avvertito subito che "se renderà dichiarazioni che concernono la responsabilità di altri, assumerà in ordine a tali fatti l’ufficio di testimone":sarà cioè obbligato a testimoniare al dibattimento; in caso contrario verrà condannato come testimone falso o reticente. Tuttavia, perché ciò possa accadere, la nuova legge pone queste condizioni: che nei suoi confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, ovvero di condanna o di patteggiamento.
Se invece procedimenti connessi o collegati a suo carico sono ancora in corso, egli conserva la facoltà di tacere al dibattimento, con la conseguente nullità della prova e la vanificazione del processo.
Secondo me è una grave lacuna, aggravata dal fatto che nella stessa condizione si trovano gli imputati per un medesimo reato in uno stesso processo: costoro mantengono comunque il diritto di tacere al dibattimento. Anche se nel corso delle indagini hanno reso dichiarazioni veridiche e circostanziate, esse cadono nel nulla in virtù del silenzio dibattimentale; silenzio che rende impossibile il contraddittorio, architrave del giusto processo, e vanifica il dibattimento stesso.
Si è detto che non c’era altra soluzione per la impossibilità di distinguere tra fatto proprio e fatto altrui nel medesimo reato. La Camera però era stata di contraria opinione nel testo votato in prima lettura, che aveva imposto (secondo me giustamente) l’obbligo testimoniale a qualunque imputato che accusasse terze persone. La nuova modifica rischia il ritorno a " quella avvilente pratica dei silenzi dibattimentali" (Paolo Ferrua, giurista) che hanno "picconato" decine e decine di processi a carico di mafiosi, di corruttori e di trafficanti di droga. Il nostro legislatore è stato disattento e frettoloso: se è vero che "il diritto al silenzio" è un valore costituzionale, ci sono altri valori che andavano difesi. Primo fra tutti la funzione del processo che è quella, attraverso le prove, di arrivare alla verità e di condannare i colpevoli (e non di assolvere coloro che, pur colpevoli, sono protetti da un garantismo a senso unico).
Per fortuna la legge ha posto una eccezione a un così largo diritto al silenzio: quando vi sono elementi concreti per ritenere che il "pentito" è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta di danaro per mantenere il silenzio in aula, le dichiarazioni rese al Pubblico Ministero restano valide ed entrano a far parte del fascicolo del processo.
Questa è senza dubbio una buona norma, che va valutata positivamente, anche se la dizione "elementi concreti" (che dovranno essere forniti dal PM) è troppo vaga e potrà dar luogo a interpretazioni contrastanti.
La nuova legge contiene per altro una inspiegabile lacuna: non comprende fra le compatibilità a testimoniare la sentenza di non luogo a procedere, emessa nell’udienza preliminare. Accade così che il "pentito" che ha patteggiato, ovvero è stato assolto o condannato in dibattimento con sentenza definitiva, può assumere la veste di testimone; non invece quello che è stato assolto dal GUP. Perché? Mistero.
Potrei fare molti altri esempi per dimostrare che questa legge, pur segnando un passo avanti, avrà bisogno di profondi interventi nella prossima legislatura. Basti dire che il nodo dell’art. 513 cpp per i processi in corso non sembra essere stato sciolto, restando in vigore, per essi, il previgente art. 500 cpp, che mantiene inalterato il punto più delicato e controverso, cioè la portata del "diritto al silenzio" al dibattimento.