Il Vangelo e la Chiesa, la fede e la religione
La vicenda di don Marcello Farina e un editoriale di Renato Ballardini.
E’ del 13 gennaio la notizia che un prete, don Marcello Farina, si sente costretto a lasciare il duomo di Trento in cui, alla Messa, commenta da anni il Vangelo, ascoltato da molti, credenti e in ricerca. Lo stesso giorno in cui Renato Ballardini, un laico, scrive nell’editoriale di Questotrentino che le religioni organizzate, "In nome di Dio", sono ancora un flagello dell’umanità.
Un credente e un laico, lontani, che nemmeno si conoscono, forse. E quali parole imprecise, fuorvianti, siamo costretti ad usare, quasi che a don Marcello sia estraneo il valore della laicità, e a Renato l’afflato religioso della ricerca. Per me sono amici, leggo insieme, di sabato, le loro parole che fanno riflettere, bruciare talvolta. Marcello Farina distingue il Vangelo dalla Chiesa, Renato Ballardini la fede dalla religione.
E’ sorpreso il prete filosofo dalle polemiche che suscitano i suoi interventi, che dividono e incidono? Non penso: Gesù è venuto a portare una spada che taglia. E’ una fede, quella cristiana, che inquieta, perché interpella la storia, e dalla storia si lascia interrogare.
Le ragioni per cui Marcello Farina riesce scomodo, le esprime bene, senza avvedersene, un prete diverso da lui, don Fortunato Turrini: "Dopo sei anni di predicazione, uno fa fatica a trovare argomenti nuovi. Il pubblico, più o meno sempre lo stesso, finisce per conoscere gli argomenti delle omelie. Perciò ha fatto bene a lasciare." Per don Turrini è la ripetizione, cioè la noia, il destino di chi annuncia il Vangelo.
E invece un’omelia appare dotata di senso quando sa ricostruire con perizia il contesto culturale lontano, cui appartengono i segni e le parole evangelici. E se poi, scrostati, essi vengono attualizzati, ricollocati nella storia di oggi, che muta. Non dovrebbe essere la ripetizione il rischio che corre il biblista all’ambone, né la noia quello dell’ascoltatore fra le navate.
L’abbandono di Marcello Farina non è un fatto "normale", come ritengono don Turrini, e anche il vescovo Luigi Bressan. Non è necessario immaginare complotti, o inseguire dietrologie. Il fatto è che a contestualizzare la buona novella è sufficiente un biblista, colto. Per ricontestualizzarla nell’oggi, vivificata, serve una comunità che si sforza di crescere, in dialogo, autentica e adulta.
Nel mondo moderno, secolarizzato e globalizzato, l’esperto non sa, da solo, comprendere i paradossi, e renderli significativi. Sono la sterile che diventa madre, l’operaio dell’ultima ora ricompensato come quello arrivato sul lavoro alla prima, il figliol prodigo festeggiato dal padre più del figlio fedele. E’ l’"amate anche i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano"; è "da chi vuole strapparti la tunica, tu lasciati prendere anche il mantello". E’ il "Beati i poveri" del Discorso della Montagna.
Renato Ballardini pone ai cristiani, anzi ai credenti in ogni fede, agli ebrei, ai musulmani, agli indù, una domanda che accusa. Perché la fede, da intimo stato di grazia personale, da domanda sull’esistenza e sulla vita, ha generato le religioni organizzate? Perché il dono, il dialogo privato dell’uomo con Dio, ha generato teologie ed etiche, istituzioni e riti, diversificati e contrapposti? Cioè guerre lunghe e sanguinose. Potremo aggiungere: sono stati Mosè, Gesù, Maometto, tre grandi "impostori"?
E’ una domanda radicale, che intriga. Marcello Farina risponde (l’Adige, 6 gennaio) distinguendo nel Cristianesimo due facce: l’istanza di universalità e il bisogno di identità. "La verità di Dio può venire da tutte le latitudini, e la salvezza, cercata con nostalgia nei propri riti e nella propria religione, passa anche per luoghi inediti, per strade sconosciute": è l’orizzonte intero, aperto, dell’Epifania. Poi c’è il segno dell’appartenenza, in cui chiude il Battesimo: "L’identità crea sintonia di vedute, rafforza i progetti comuni, dà la possibilità di fidarsi della collaborazione dell’altro, si sforza di scoprire un volto di Dio che possa essere comunicato anche alle generazioni successive." Di aperture e chiusure è fatta la storia. Di sistole e diastole, il respiro che ci permette di vivere.
E’ un "guaio" la storia, in cui la fede, "un sentimento così rispettabile" genera, in "una metamorfosi perversa", le religioni organizzate? Avremmo avuto, e avremmo, la pace, senza il fanatismo incarnatosi nella Croce e nella Mezzaluna, nel Muro del Pianto e nella Spianata delle Moschee - lascia intendere Renato Ballardini.
Eppure, obietta Marcello Farina, se "uno svende la propria identità (la sua tradizione) come insignificante, difficilmente troverà motivi per un dialogo costruttivo." Forse è da un particolare, limitato, punto di vista, che siamo condannati a scorgere l’intero orizzonte. Ed è dalla vertigine instabile dell’utopia che aspiriamo alla sicurezza, provvisoria, dell’identità.
Sono le antinomie, storiche, che ci costituiscono uomini, che ci uniscono e ci differenziano. Io penso che la Bibbia e la Sinagoga, il Corano e il Vangelo, portino in sé sia i germi del fanatismo, sia i loro antidoti. Anche l’ateismo è una grazia, ed è attraversato da rischi: il dibattito sull’illuminismo non accenna a concludersi.
"Fasto e maestosità", in cui Renato Ballardini sintetizza il Giubileo, non sono le parole sprezzanti usate da intellettuali come Lucio Colletti e Massimo Cacciari, sui versanti opposti di destra e di sinistra, ma restano un’accusa, sulla quale la Chiesa dovrebbe riflettere. Le manifestazioni di massa non possono surrogare la carenza di comunità adulte, in cammino, che pensano.
Ma anche il fasto ha le sue crepe. Ho scorso quest’estate, negli elenchi delle polemiche, i nomi dei giovani trentini accorsi a Roma. I tre che vi ho riconosciuti, Francesco, Giovanna, Christian, diciottenni alla vigilia dell’esame, non sono fanatici. I loro corpi, e le loro menti, non potranno essere gettati sul tavolo, dai cardinali Ruini e Ratzinger, nelle trattative che a loro stanno a cuore. Essi sanno, confusamente, che i tempi moderni hanno segnato la fine della cristianità, e che i tentativi di restaurarla sono antistorici.
Al Vangelo non chiedono una dottrina antropologica, etica, politica. Sanno, come diceva Ernesto Balducci, che "ciò che nel Vangelo appartiene all’antropologia, alla morale, all’ascetica, appartiene alla cultura che fece da contesto all’annuncio dell’evento pasquale". Hanno sghignazzato in molti sulle montagne di preservativi trovati nei parchi che hanno ospitato - altra parola sprezzante di incomprensione - i Papa boys. Sono invece il sintomo di una cultura che cambia.
Ovviamente quei ragazzi non sanno già le risposte giuste sulla sessualità e sulle manipolazioni genetiche, sulla povertà del mondo e sull’ambiente, sull’immigrazione e sulla sicurezza: cercano, insieme con tutti gli altri ragazzi e ragazze del mondo.