Lavoro: stranieri indispensabili?
La crisi della manodopera a più bassa qualifica. Si rimedia con l’immigrazione. Le altre possibili soluzioni.
Idati sulle richieste per l’anno in corso di lavoratori extracomunitari ha riproposto all’attenzione generale il problema immigrazione, però da un punto di vista molto specifico, quello del mercato del lavoro. I dati dicono che la regione Trentino Alto Adige è al primo posto in Italia per numero di autorizzazioni richieste (9.400 su di un totale nazionale di 63.000) e per incidenza di extracomunitari sul totale delle nuove assunzioni (36,4%, a fronte di una media nazionale del 24,5%). E’ una conferma del buon andamento dell’economia trentina, che registra anche tassi di disoccupazione (specialmente quella maschile) a livelli fisiologici: 2,4% per i maschi e 6,4% per le donne. Sotto questo aspetto, anzi, la nostra regione, ma in genere tutto il Nord-Est, sfugge a quella contraddizione che affligge altre regioni d’Italia, dove una consistente richiesta di lavoratori immigrati si coniuga con un alto tasso di disoccupazione.
I fabbisogni per l’anno 2001 sono stati presentati prima di Natale dagli assessori provinciali Remo Andreolli (lavoro) e Marco Benedetti (industria e turismo) ed è stata un’occasione per alcune riflessioni. Niente di sorprendente, ci sembra. Si sapeva che questi lavoratori vanno a coprire i posti di lavoro a più bassa qualifica professionale e a prevalente carattere di stagionalità nell’agricoltura, nell’edilizia, nel settore del porfido, della sanità, del turismo e dell’assistenza. E’ risaputo che si tratta di impieghi non più graditi ai lavoratori trentini (e non più nemmeno all’immigrazione dal Meridione). Timori sono affiorati su presunti effetti destabilizzanti del sistema produttivo trentino e di dequalificazione del mercato del lavoro come effetto dell’ingresso della manodopera straniera, mentre l’assessore Benedetti ha avanzato l’ipotesi di frenare l’immigrazione, rendendo alcuni di quei lavori "appetibili anche ai trentini".
La relazione con il mercato del lavoro sta alla radice, ci sembra, del fenomeno immigrazione (esclusa naturalmente quella a scopo delinquenziale e quella di asilo politico) e ciò ha posto il funzionamento del mercato del lavoro sotto attenta osservazione, se non sul banco degli imputati.
Di questa relazione tratteremo qui, ben sapendo che il fenomeno immigrazione non è comunque riducibile al solo aspetto economico. Ci sono fattori culturali che agiscono da calamita e fra questi il principale è il modello consumistico dell’Occidente. Maggiore è il differenziale di questo modello di vita rispetto ad altri più arretrati e maggiore sarà su di essi la sua forza di attrazione.
Quali sono, in teoria, le possibili soluzioni per far fronte ad una domanda significativa di manodopera che non trovi nei lavoratori nazionali adeguata copertura? Escludendo l’ipotesi di restrizione o abbandono di determinate attività economiche, abbiamo messo insieme, senza alcuna pretesa di completezza, il seguente elenco:1. leva demografica; 2. delocalizzazione delle imprese o di rami delle stesse; 3. innovazione tecnologica; 4. incentivazione forza lavoro autoctona; 5. immigrazione interna (da altre regioni); 6. immigrazione esterna, cioè, di fatto, extracomunitari
Queste soluzioni non si escludono reciprocamente, anzi si prestano a svariate combinazioni fra di loro in un rapporto di complementarità. Proviamo ad esaminarle brevemente, con riferimento alla realtà della nostra provincia.
1. Leva demografica. C’è chi considera la scarsa tendenza delle famiglie trentine a fare figli (tasso di crescita praticamente uguale a zero) come la causa principale dell’importazione di manodopera. Tuttavia, subordinare la procreazione alle esigenze del mercato del lavoro ci sembra decisamente inaccettabile: ci sembra riecheggi la cinica concezione della "carne da cannone". Sono ben altri i parametri, le motivazioni e le finalità che devono sovrintendere alla scelta di fare figli, propensione che col crescere del benessere e dell’istruzione - è ormai assodato - si riduce drasticamente. D’altra parte, togliere ai giovani la prospettiva di un lavoro sicuro ed equamente remunerato e pretendere o aspettarsi che mettano su famiglia e facciano tanti bambini è veramente pretendere troppo! Non va poi dimenticato il contesto globale: il pianeta è sovrappopolato, con drammatiche conseguenze di inquinamento, già in atto, e fosche prospettive in ordine all’esaurirsi delle risorse. Infine, la leva demografica avrebbe comunque effetti a lungo termine e quindi non risolverebbe i problemi dell’oggi e del futuro prossimo.
2. Delocalizzazione. La delocalizzazione delle imprese verso paesi dove c’è abbondanza di manodopera a basso costo (e priva di diritti sindacali) è una delle soluzioni più congrue in termini di dottrina economica capitalistica. La ricerca del maggior profitto richiede infatti l’allocazione delle attività produttive laddove i mezzi di produzione sono più a buon mercato e questo meccanismo, col tempo, dovrebbe diffondere lo sviluppo su tutto il pianeta. Fin qui la teoria, ma la pratica, com’è noto, è più complessa e non esente da gravi rischi. Non sono tuttavia rari gli imprenditori, anche della nostra regione, che hanno impiantato fabbriche nei paesi in via di sviluppo, nell’Europa dell’Est di preferenza. Ma questa via non è percorribile nel caso in esame: i frutteti sono qui, le cave di porfido anche, come le opere edili, gli esercizi turistici e le persone da assistere e mica si possono spostare dove fa più comodo.
3. Innovazione tecnologica. Sarebbe la soluzione più coerente, in linea con lo "spirito del tempo". La sostituzione di manodopera con tecnologia sofisticata è un processo che si è bensì affermato, ma che ha ancora dei margini enormi, forse impensabili, davanti a sé. Il ricorso a tecnologie avanzate non solo potrebbe risolvere i problemi di carenza di manodopera, ma di fatto crea esuberanza ed espulsione di lavoratori dai cicli produttivi. Venendo al nostro caso, l’innovazione tecnologica potrebbe intervenire in certi processi, come la raccolta delle mele, l’attività edilizia ed altri, ma i servizi alle persone, il lavoro infermieristico, l’assistenza privata agli anziani e ai malati, i servizi alberghieri e turistici non possono venire forniti per mezzo di macchine. Anzi, la previsione è che in questi settori l’invecchiamento della popolazione e il superiore tenore di vita faranno lievitare la richiesta di addetti. C’è chi teme che la scorciatoia del ricorso alla manodopera extracomunitaria possa ritardare o far trascurare, laddove questo è possibile, gli investimenti in tecnologie innovative da parte delle nostre imprese, che a quanto pare già non brillano per competitività. Il problema è reale e corrisponde ad una debolezza strutturale del sistema produttivo trentino, dovuta ad una scarsa propensione al rischio imprenditoriale.
4. Incentivazione della forza lavoro autoctona. Ne abbiamo già accennato, riferendo la proposta dell’assessore Benedetti. Abbiamo visto che in Trentino il tasso di disoccupazione è difficilmente comprimibile ulteriormente, si tratterebbe insomma di raschiare il fondo del barile. (Altro discorso sarebbe quello sulla qualità di questa occupazione, che specialmente negli ultimi anni ha riguardato prevalentemente impieghi di lavoro precario). Certo che nel momento in cui il ricorso ai lavoratori stranieri comportasse per la comunità il sostenimento di costi importanti per le politiche socio-culturali di integrazione (abitazioni, istruzione, interventi culturali specifici ecc.), diventerebbe plausibile, in alternativa, spendere quelle risorse in incentivi alla forza lavoro locale. Si tratta insomma di fare un banale bilancio costi-benefici.
Rimane un grosso punto interrogativo: basteranno vantaggi economici per rendere appetibili determinati lavori ai trentini? Per alcune di queste attività (edilizia, porfido) che comportano anche fatica fisica e pericolosità, dubitiamo che siano sufficienti. Per battere, invece, l’aspetto stagionalità e mobilità, come nel settore turistico e in quello agricolo, crediamo che incentivi non evanescenti potrebbero avere successo. All’assessore Benedetti abbiamo chiesto quale fosse la portata della sua proposta. "E’ un progetto - ci risponde - che intendiamo sperimentare nel contesto turistico, di concerto con l’Unione commercio. Abbiamo considerato che ciò che allontana da queste occupazioni i lavoratori trentini è la stagionalità e la mobilità, che rappresentano un problema per chi ha famiglia, o un impedimento per chi vuole formarsene una. La Provincia metterà a disposizione un immobile da destinarsi ad abitazione di questi nuclei familiari. L’idea è di dislocarne alcuni sul territorio in modo strategico, al fine di risolvere il problema della casa per questi lavoratori. Si pensa inoltre alla corresponsione di un salario nei periodi di interstagionalità, cioè fra un lavoro e l’altro. E si sta anche valutando con le Associazioni imprenditoriali dell’industria se esista la possibilità di estendere la proposta anche a quel settore".
5. Immigrazione interna. L’immigrazione interna sembra su un binario morto. I giovani disoccupati del sud sono poco inclini a trasferirsi per lavorare al nord. I motivi sono vari e sono stati messi più volte in evidenza. In sintesi: la situazione nel luogo di residenza non è più disastrosa come qualche decennio fa e al nord li aspetterebbe un lavoro in genere precario e mal retribuito a fronte di un costo della vita molto alto. Insomma, se uno può campare a casa sua e possiede spirito di adattamento, ben difficilmente si farà sedurre da simili proposte. Paradossalmente, la cultura della flessibilità, propagandata per indurre i giovani ad accettare situazioni lavorative sfavorevoli, sembra invece affermarsi sul piano esistenziale di una scelta di vita frugale, senza lavoro o con lavori occasionali.
6. Immigrazione esterna. Abbiamo lasciato per ultima questa ipotesi, che è l’oggetto principale dei nostri ragionamenti. Presenta aspetti molto stuzzicanti per gli imprenditori, che vi si rivolgono con entusiasmo. Di braccia extracomunitarie ne esiste un bacino pressoché inestinguibile: sono lavoratori con poche pretese, costano poco e quando non servono più te li togli di torno. Soltanto che lo scenario sta cambiando e l’immigrazione sta ponendo problemi nuovi e complessi, che impegnano a fondo l’intera comunità. E’ una sfida i cui esiti non sono affatto scontati.
Ne abbiamo parlato con Antonio Rapanà, responsabile dell’Ufficio Immigrati della Cgil, membro della segreteria provinciale di quell’organizzazione sindacale, e con alle spalle un’esperienza importante al vertice dell’ex associazione interetnica Shangrillà.
La presenza di immigrati in Trentino è ormai un dato di fatto importante e a quanto sembra in futuro lo sarà ancora di più. Dal suo osservatorio, come giudica lo stato dei rapporti della popolazione trentina con questi stranieri?
"Io non vedo una maturazione significativa di percorsi di integrazione e di convivenza, anche se è vero che non ci sono fenomeni eclatanti di intolleranza. Grazie soprattutto al tessuto sociale, culturale ed etico della comunità trentina, che regge bene soprattutto nei paesi. Manca un’adeguata attenzione da parte dei partiti, del mondo politico e istituzionale e anche dei sindacati".
Qual è in genere l’atteggiamento che prevale nei confronti degli immigrati?
"Ci sono due atteggiamenti opposti. Da una parte l’atteggiamento, che ha acquisito una visibilità maggiore, anche politica, di chi sbraita contro gli immigrati, accusandoli se non di portare via il lavoro ai locali, visto che questa ormai è una favola a cui non crede più nessuno, di essere comunque fonte di disordine e di inquietudini. E c’è, al contrario, l’atteggiamento di chi inneggia enfaticamente all’altro, come fonte di ricchezza, rendendo questo etico altro un’astrazione, senza carnalità e materialità..
Io credo che anche quest’ultimo sia un approccio pericoloso. Perché se è vero che la diversità può essere fonte di arricchimento, è altrettanto vero che la diversità può essere causa di conflitti, di tensioni, di ostilità. La convivenza di persone che appartengono a storie e culture diverse non crea spontaneamente integrazione. La convivenza e l’integrazione vanno costruite ed occorre che le istituzioni, le associazioni, le organizzazioni e tutta la comunità italiana e straniera si facciano carico di questo processo.
Gli immigrati sono una risorsa necessaria per lo sviluppo economico, e mi pare che l’abbiano capito tutti; il problema è di andare oltre questo approccio strumentale. Alle istituzioni spetta il compito di esperire politiche sociali e culturali che riconoscano agli immigrati la condizione piena di persone e i diritti di cittadinanza: il diritto alla casa, all’identità culturale, all’istruzione, alla formazione, ad un lavoro dignitoso, a vivere e a morire in questo paese secondo le proprie convinzioni e i propri culti.
In Provincia di Trento queste politiche per gli immigrati a che punto sono?
"Io credo che con grande fatica, all’inizio degli anni Novanta, si siano progettate delle politiche di accoglienza, affidando in genere alle associazioni la gestione del problema. Il fenomeno, allora, aveva delle caratteristiche quantitative e qualitative molto precise, legate appunto alla prima fase del flusso. Si trattava di una immigrazione costituita essenzialmente da maschi, in età giovane, prevalentemente provenienti dal Magreb e singoli. In quella fase erano sufficienti politiche di accoglienza per fronteggiare un fenomeno che si rivelava improvvisamente, in forme impetuose e inaspettate. Da allora la situazione è completamente cambiata: si è passati da un’immigrazione temporanea di persone singole a progetti di insediamento permanente di nuclei familiari, provenienti da un ampio arco di paesi. Sono stati gli arrivi delle famiglie a rendere esplosivo il problema, la presenza di donne, di bambini. Un quadro che pone problemi assolutamente nuovi, non più di politiche di accoglienza in un’ottica emergenziale, ma di politiche di integrazione e di cittadinanza".
Su questo versante si è incominciato a fare qualcosa?
"Siamo all’anno zero. Personalmente ho molto apprezzato l’iniziativa dell’assessore provinciale Magnani, che ha insediato nel 1999 una Commissione (di cui fa parte lo stesso Rapanà, n.d.r.) per elaborare un disegno di legge provinciale sull’immigrazione. Per essere più precisi, per recepire la legge nazionale del marzo del 1998, non per anticipare i tempi. In Italia esiste questa legge, calibrata sui nuovi problemi, già da due anni; la legge provinciale che viene tuttora applicata in Trentino risale al 1990 (legge prov. n.13) ed è superatissima. La Commissione ha prodotto una bozza di disegno di legge, un progetto non velleitario, in grado di rispondere ai bisogni dei cittadini immigrati e dei cittadini italiani, prestando la dovuta attenzione alla sostenibilità sociale e culturale. Vi viene definito un quadro di strumentazione per operare, perché quel che manca è appunto un progetto complessivo, fondato sulla consapevolezza che i problemi degli immigrati vanno affrontati nell’interesse di tutta la comunità, italiana e straniera. Purtroppo si continua a pensare invece alle politiche dell’immigrazione come politiche differenziali, residuali, emergenziali".
Che fine ha fatto il progetto elaborato dalla Commissione?
"La giunta provinciale dovrà decidere cosa farne. Aspetto di vedere se riuscirà a porsi in maniera lungimirante e realistica di fronte a questo problema. Ma non c’è, per ora, alcun segnale".
Nel recente dibattito è emerso il timore che la consistenza degli inserimenti di immigrati possa dequalificare il mercato del lavoro trentino. In altri termini, la loro debolezza contrattuale produrrebbe un peggioramento delle condizioni lavorative anche per gli addetti locali.
"Non si tratta di un effetto provocato dagli immigrati: è creato dai processi di globalizzazione e dalla nuova strutturazione post-fordista dell’organizzazione produttiva, che ha per corollario la flessibilizzazione del rapporto di lavoro.
I flussi migratori non sono soltanto flussi di persone in fuga dai loro paesi, reagiscono a precisi fattori di attrazione legati alle trasformazioni che sono avvenute nel sistema produttivo e nel mercato del lavoro dei paesi sviluppati. Anche in Italia si è determinata una forte domanda di lavoro con caratteristiche di adattabilità, flessibilità, discontinuità. In Trentino i flussi di avviamento al lavoro ci dicono che la crescita dell’occupazione riguarda nella misura dell’80% posti di lavoro precari.
Quindi la dequalificazione del lavoro non è causata dalla presenza degli immigrati, ma gli immigrati sono al contrario la risposta a questa dequalificazione. Tanto più in Trentino, dove nessuno può affermare che ci sia concorrenzialità con la forza lavoro italiana".
A proposito di concorrenzialità, quali possibilità esistono, a suo parere, di indurre i lavoratori trentini ad accettare quegli impieghi che tipicamente vengono svolti dagli immigrati?
"Bisogna tenere presente che nell’adattabilità del lavoratore immigrato giocano motivi culturali, in quanto come riferimento comparativo ha le condizioni economiche, sociali e lavorative del proprio paese. Quindi, accettano condizioni lavorative che nessun italiano potrebbe accettare. Tanto che, a mano a mano che il percorso di inserimento matura, nemmeno molti stranieri sono più disposti a subire violazioni contrattuali e contributive.
Tempo fa qualcuno fece ridere il mondo, dicendo che nella raccolta delle mele si potevano utilizzare i soldati. Non vorrei che qualcuno si affiancasse a proposte risibili come questa".