Insegnanti: corrotti, depressi, sfduciati o cosa?
Dai risultati di un’indagine, una fotografia dei docenti italiani fatta di luci ed ombre.
Sfiduciati e depressi": così i giornali di luglio avevano appena riassunto, nei titoli, il ritratto degli insegnanti emerso dall’indagine Iard, che scoppiò lo scandalo dei concorsi truccati. E naturalmente la notizia degli insegnanti "corrotti" apparve subito più ghiotta da imbandire per giorni.
Di certo vi è, tra milioni di italiani, un deficit di etica pubblica. E gli insegnanti sono italiani. Che per questo "difetto" sia pronta una cura, rapida e radicale, lo credono però solo i taumaturghi. Il potere ai presidi o alle università, l’albo dei valutatori e i concorsi triennali, non bastano da soli a sanare un male che ha radici profonde, nella storia lunga della nazione. Né basteranno il privatizzare e il competere, gli anatemi contro i sindacati e il ministero centrale, o l’abrogazione del valore legale del titolo di studio.
E’ invece più utile riflettere sulla sfiducia e sul pessimismo, rilevati nella classe docente da un istituto serio come lo Iard. Se sono sfiduciati e pessimisti i produttori di macchine da scrivere, rispondo indifferente che la storia cammina, che non si può frenare il computer. Se lo sono i produttori di cemento e gli impiantisti di piste da sci, penso soddisfatto, addirittura, che è una nuova cultura, lo sviluppo sostenibile, a mettere finalmente qualche radice.
Ma se sfiduciata e pessimista è definita la categoria degli insegnanti, è la società intera a doversi preoccupare. Gli insegnanti infatti trasmettono conoscenze e competenze tecniche, scientifiche, culturali, ma anche modelli e valori, ai cuccioli che sono loro affidati. L’insegnante, prima di quello che sa, insegna quello che è. Se l’insegnante è depresso, affetto da una sindrome di delusione e di pessimismo etico, i ragazzi ne respirano l’aria.
Gli insegnanti però non sono tutti uguali. Sono come gli idraulici, gli infermieri e…gli studenti, dico ai giovani che, critici, mi ascoltano seduti fra i banchi: c’è chi arriva puntuale e chi arriva in ritardo, chi prepara gli attrezzi e chi li dimentica, chi verifica se il lavoro è fatto per bene e chi pensa in fretta a staccare. Insomma, c’è chi è motivato e chi no. Al di là di quelli, pochi ritengo, (io, in più di trent’anni, non ne ho incontrato nessuno), che si lasciano corrompere da un braccialetto o da una bustarella.
La ricerca Iard ci informa che circa un quarto degli insegnanti non è interessato alla propria crescita personale, un quarto dimostra un impegno elevato, mentre la massa si situa fra questi due estremi. Non è possibile, in questa sede, articolare i giudizi per sesso, classi di età, tipi di scuola, discipline insegnate, area geografica di residenza. E’ soprattutto fra gli insegnanti delle superiori (74%) che il prestigio del ruolo è percepito in declino, proprio fra quelli che leggono il quotidiano più regolarmente (anche se lo legge tutti i giorni appena il 54%). I più sfiduciati appaiono i docenti anziani di materie letterarie, il sottogruppo in cui è arruolato anche lo scrivente da anni.
All’origine del disagio ci sono ragioni diverse. La prima è di lunga durata: nella società postindustriale, complessa e in rapida trasformazione, i mezzi di comunicazione di massa mettono in crisi la scuola come agenzia prevalente nella trasmissione di conoscenze e di modelli culturali.
La seconda ragione è più contingente: per anni la scuola in Italia fu considerata dalla classe dirigente (non solo la classe politica, ma anche gli imprenditori, i sindacati, gli intellettuali, i giornali) un settore marginale. Fu negli anni Novanta, catapultati in Europa, che il nostro sistema scolastico apparve inadeguato e bisognoso di radicali riforme. Quando queste furono elaborate, e proposte per l’attuazione a docenti "depressi", esse apparvero fatalmente calate dall’alto e guardate con sospetto da molti.
Alessandro Cavalli, sociologo dell’educazione responsabile dell’istituto Iard, si chiedeva lo scorso anno, a Trento, di fronte a un manipolo ristretto di insegnanti sconcertati, come valorizzare, e rendere trainante, la "cospicua minoranza" dei motivati. Le innovazioni in cantiere, necessarie e tardive, dell’autonomia, dell’esame finale, della riforma dei cicli e dei programmi, riusciranno infatti efficaci solo se gli operatori vi lavoreranno da protagonisti.
Etuttavia, mi pare, l’indagine Iard non induce a un pessimismo generalizzato. Sull’autonomia scolastica tre insegnanti su quattro nelle superiori, e una percentuale ancora più consistente nei gradi inferiori, esprimono consenso. Ed è questa la riforma decisiva, tendente a calibrare gli obiettivi nazionali sulle esigenze specifiche, del territorio e degli allievi, a valorizzare cioè la professionalità e l’iniziativa dei docenti.
Sul problema degli stranieri, che il grosso della società italiana, spaventata e sbrigativa, equipara ai criminali, gli insegnanti sembrano capaci di opporre resistenza. A chi preme, e chiede o espulsione o assimilazione, la grande maggioranza, soprattutto delle scuole materne, elementari e medie inferiori, risponde che l’educazione interculturale è non solo inevitabile, ma possibile e positiva.
La scuola non appartiene agli insegnanti però: la società ha il diritto di sceglierli, formarli, strigliarli, valutarli. Non può infondere in loro il desiderio. Faccia leva sulla disponibilità di chi ancora resiste, di chi vede con preoccupazione crescere fra i giovani i valori del denaro, dell’apparenza, del successo. Ne ascolti con maggiore attenzione i lamenti, anche quando hanno la voce della sfiducia e del pessimismo. Sono passati per le aule scolastiche i ragazzini che rifiutano il casco, e i carabinieri che sparano. Anche a Terlago, chi è morto e chi ha ucciso, e chi con quelle vittime è vissuto giocando a freccette, si è imbattuto in qualche insegnante.
Le antinomie caratterizzano costitutivamente la scuola. Essa deve trasmettere una cultura già data e disporre all’innovazione, deve prestare attenzione ai talenti e fornire a tutti gli strumenti di base, deve educare ai valori universali e conservare le radici locali.
Non sembri strano, dunque, che l’indagine Iard ci parli di insegnanti amareggiati e contemporaneamente soddisfatti. La maggioranza, sette su dieci, se potesse tornare indietro, riconfermerebbe la propria scelta lavorativa.
Delusione e speranza si intrecciano nella stessa persona. "Sei la prova vivente dell’inutilità della mia esistenza come insegnante di storia", ho accusato quest’anno duramente un ragazzo poco prima che concludesse gli studi. Ed egli, in regalo, a conferma dell’abisso che ci separa, mi ha inviato un corposo fascicolo, estratto da Internet, che nega l’esistenza della Shoah. Abisso, ma anche un filo che continua a legarci, voglio sperare.
È un lavoro che logora quello dell’educatore, il più stressante di tutti, proprio perché è relazione continua con l’altro. Ma i giovani insegnanti, con i quali ho trascorso l’anno passato qualche ora in un corso di formazione, mi hanno ripetuto, tutti, che a motivarli alla scelta è che, a scuola, si stabiliscono rapporti con chi è diverso da noi.
Tante cose nella società giocano contro. Eppure, scriveva Freud anche per gli sfiduciati e i pessimisti, "la scuola deve fare qualcosa di più che evitare di spingere i giovani al suicidio; essa deve creare in loro il piacere di vivere…e suscitare interesse per la vita che si svolge fuori, nel mondo."
Noi, gli insegnanti più anziani soprattutto, intuiamo che il mondo in cui vivranno i giovani sarà diverso dal nostro. Ed è difficile educare per un mondo imprevedibile e incerto, perché dobbiamo esibire la nostra incertezza.