Scuola: fallimenti e responsabilità
Perché alla laurea arriva solo un iscritto su tre? Lettera aperta al preside della facoltà di Ingegneria.
Caro professore Aronne Armanini, per catturare nuovi iscritti, l’Università di Trento ha messo in cantiere una serie di scoppiettanti iniziative. I giovani sono stati invitati a visitare le facoltà, a partecipare ad una lezione, a mangiare in mensa, a vedere un film al centro polifunzionale. Anche i genitori dei ragazzi hanno potuto varcare con i figli la soglia di aule e di laboratori austeri. E’ stata una bella idea: i giovani - troppo pochi - che scelgono oggi, in Trentino, di frequentare l’università, non sono, in gran parte, figli di laureati. L’università perciò incute ancora timore, ai figli e ai padri. La decisione di proseguire gli studi, fino lassù, alla corona d’alloro, è spesso sofferta. Quasi mai per ragioni economiche, per ragioni sociali e culturali piuttosto: la storia del Trentino è travagliata.
Ci vuole una profonda motivazione "umanistica" per decidersi, dopo il diploma, a studiare ancora, a rinunciare a un subito guadagno per stare chini altri anni sui libri. Dopo la laurea guadagneranno di più, e troveranno un lavoro più facilmente?
Sì, dicono le statistiche. Ma esse non bastano a invogliare quei giovani a una scelta nuovissima, carica d’ansia per loro e le loro famiglie. E a studiare poi con serietà, a fronteggiare le difficoltà, inevitabili. Per decidersi devono sentire che quello studio ulteriore li realizzerà come persone. E che poi svolgeranno una funzione sociale importante, in un mondo che cambia velocemente: che la società intera li aspetta.
Io insegno ai giovani dell’Istituto Tecnico Industriale, da tanti anni. E parecchi, quindi, sono approdati, professor Armanini, proprio alla Facoltà di Ingegneria che lei oggi dirige. Alla loro scelta talvolta ho contribuito anch’io. Incoraggiandoli quando si sentivano impreparati, sforzandomi di motivarli quando, capaci, erano renitenti: "All’università troverai dei docenti che continueranno, con te, il cammino che abbiamo percorso finora, che sapranno accoglierti lì dove sei arrivato, e poi proseguire." Inculcando il senso del limite, quando qualcuno, orgoglioso, dichiarava di saper già pensare e studiare per bene: "Devi camminare ancora, invece, vedrai."
Ipiù, di questi miei ragazzi, però, sono falliti. Quelli iscritti a Ingegneria e in altre facoltà, a Trento e altrove. Quelli diplomati con un punteggio elevato, e quelli che prevedevo a rischio. Ci dicono le statistiche che alla laurea, in Italia, arriva oggi un iscritto su tre, e dopo sette/otto anni invece dei quattro/cinque previsti.
Falliti, e quindi delusi, talvolta inaciditi e rancorosi. Uno spreco e una perdita secca, per la società. Qualcuno, fra quelli sensibili, per i quali la scuola media era sempre troppo fredda nelle relazioni fra allievi e insegnanti, dell’università mi dipinge un ritratto assai plumbeo: "Numeri, lì siamo solo dei numeri." E su questo giudizio concorda anche chi raggiunge gloriosamente il traguardo.
Leggendo i dati, e ascoltando le storie, quante volte ho auspicato con loro una qualche riforma della scuola e dell’università. Gli scartati e gli insoddisfatti mi paion troppi, per non dover ripensare a fondo la cosa, che è il nostro lavoro di formazione, unitario seppur su segmenti diversi, dal bambino, al giovane, all’adulto persino.
Io non so se le riforme in cantiere produrranno i risultati sperati. Gli italiani, par certo, sono decisi a cacciare i ministri che in questi anni attorno alle riforme si sono arrabattati, per affidare a Berlusconi, a Fini, a Bossi, il potere di nominare nuovi responsabili dell’istruzione, se non ad assumere essi stessi l’incarico.
Ma intanto leggo, su "Studiare a Trento", il settimanale a cura dell’Opera Universitaria, che lei, professor Armanini, della riforma universitaria è un critico aspro. Anche lei, ovviamente, non nega "che la conoscenza delle materie umanistiche sia importante", ma aggiunge che "queste competenze si devono assumere prima di entrare all’università". All’università ci si iscrive per diventare ingegneri: per la poesia, la musica, il film e il teatro, ci sono eventualmente le domeniche e le serate del sabato.
Io non so quali "esami estranei" appesantiranno, come lei teme, la sfera professionale. Senta cosa scrive però Umberto Galimberti, recentemente, su la Repubblica: "Un laureato in ingegneria, in biologia, in tecnica bancaria, dovrebbe essere in grado di dimostrarsi un interlocutore intelligente sul tema delle differenze religiose, sul tema della modificazione della famiglia nella società complessa, sul controllo della sessualità, sul futuro dei giovani. E invece no. […] Non penso solo ai pregiudizi delle persone ignoranti, ma all’ignoranza umanistica dei tecnici, degli scienziati, degli operatori di mercato, e più ampiamente di tutti gli attori di competenze specializzate."
E’ il catastrofismo di un umanista che considera la tecnica un cieco tiranno assoluto? Nemmeno io, insegnante di storia e di letteratura, condivido il pessimismo impotente di Galimberti. Su questo tema - il rapporto fra la scienza, la tecnica, l’umanesimo - nella mia scuola abbiamo organizzato una giornata di studio, e a ragionare con noi, proficuamente, è venuto, oltre Pier Giorgio Rauzi, sociologo, un suo vicino di casa, Gabriele Anzellotti, preside a Scienze.
Non si possono, le competenze su queste tematiche, acquisire in modo definitivo, prima di entrare all’università. Non metteranno, voglio credere, un esame di storia della letteratura nel nuovo curriculum (3+2+3) di Ingegneria. Né si potrà - direte, lei e i suoi docenti - tenere nei nostri laboratori corsi di islamismo e di demografia. Però che i medici abbiano urgente bisogno di competenze antropologiche e psicologiche lo sperimentiamo in molti quotidianamente.
Io non so quali domande, quali dubbi "umanistici" saprebbero interpellare proficuamente i suoi futuri ingegneri. Le posso dire però che i saperi di storia (della scienza e della tecnica), di ecologia, di diritto, nelle annate fortunate, hanno interessato i miei studenti di chimica. E le domande etiche li hanno interrogati in profondità, in quest’epoca di crescita scatenata delle tecniche stesse. Anzi: ho visto i giovani studiare la chimica, non arida materia scolastica, con più impegno e profitto, quando sapevano, e potevano, collocarla in un contesto culturale e politico significativo. Quella politica che "siamo noi, in quanto esistiamo al plurale", diceva Hannah Arendt.
Ancora più avvilito lei appare, professor Armanini, per il fatto che l’università riformata "debba sopperire a carenze formative della scuola media superiore". Certo, noi insegnanti dei gradi inferiori non vi forniamo dei "pezzi" già sgrezzati e limati, pronti per l’ultimo tocco. Eppure ne scartiamo tanti di pezzi, li trasformiamo in drop-out - ci hanno insegnato a dire i sociologi dell’accademia. Arrivano ancora studenti che non sanno leggere e scrivere, né studiare e pensare: ci ripetete ossessivamente. Qualcuno si spinge, il primo giorno dell’anno, è capitato di sentirlo anche a me nella notte dei tempi, allo sprezzo: "Dimenticate, ragazzi, ciò che avete imparato finora."
Provate voi a insegnare come si legge e si studia, a questi ragazzi: deve essere facile! Anche noi, talvolta, scarichiamo le colpe su chi nel lavoro ci ha preceduto, e rimpiangiamo mitici tempi passati. Ma sbagliamo: trasformazioni, problemi, difficoltà, riguardano ogni segmento del percorso unitario di cui tutti, con funzioni diverse, dovremmo sentirci partecipi. Sono figli nostri questi ragazzi, di "una società in cui troppe cose giocano contro", scrive Jerome Bruner, che pure è un americano. Società di cui noi, insegnanti, siamo però cittadini.
A scadenze periodiche, rivolto agli insegnanti di discipline umanistiche, anche Ernesto Galli della Loggia ci ricorda sul Corriere della Sera che i neoiscritti al suo corso di storia non sanno chi è Pietro Badoglio, né cosa fece l’8 settembre del ’43.
Ho la sensazione che non ce la faremo mai più a preparare per voi, e a consegnarvelo nella staffetta, lo studente ideale come voi lo vorreste. Anzi, quanto più la scuola sarà riformata, e noi diverremo un poco più bravi, cioè riusciremo a trattenere nei nostri edifici i giovanotti che oggi ci sfuggono, e a portarvi quelli, anche stranieri, che ancora non vi sono mai entrati, il "prodotto" sarà per voi sempre più deludente. La lista di chi non sa superare in prima battuta la prova di analisi matematica sarà sempre più lunga, e voi sarete costretti a recriminare sempre più forte. Se non sarete disposti un poco tutti a cambiare, non solo le minoranze già attente.
Sento che non riuscirò ad accrescere il numero degli studenti che conoscono Pietro Badoglio, per la disperazione di Galli della Loggia. Ma vi si imbattono una sola volta, sul manuale dell’ultimo anno! Nemmeno io saprei dire adesso, così su due piedi, il nome dello scopritore del Dna, e quando ottenne il premio Nobel, e forse sono informazioni più importanti che quel maresciallo.
E se invece i giovani sapessero dove documentarsi, consultare il libro e i mezzi multimediali, o cercare Badoglio attorno alla parola chiave "fascismo", non basterebbe? E non sarebbero queste, addirittura, competenze più utili della conoscenza così povera e cruda? Ma non siamo ancora capaci di fornire queste capacità creative, né noi né voi, riconosciamolo.
L’ideale della facoltà di Ingegneria, lo afferma convinto, professor Armanini, concludendo l’intervista, è "la nascita di figure professionali specifiche e diversificate a seconda delle esigenze del mercato." Questo è certo un obiettivo importante: rispondere con rapidità alle richieste del mondo della produzione, istruire bene i giovani sul funzionamento di tutte le macchine.
Ma il problema ha anche un’altra faccia: oltre l’adeguare i membri di una società alla cultura così come ci è stata trasmessa, dovremmo adeguare la cultura alle esigenze dei suoi giovani membri. Perché non diventino anch’essi delle macchine funzionanti. E’ una contraddizione di cui, credo, non potremo mai liberarci. Solo quando ci dimostriamo consapevoli che l’antinomia è questa, i giovani, alcuni, ci ascoltano ancora.