Il Filmfestival e la morte dell’alpinismo
Al di là delle gravi lacune organizzative, il festival di Trento rispecchia in modo esemplare la critica situazione dell’alpinismo.
L'edizione di quest’anno del Filmfestival della montagna di Trento è stata un’edizione esemplare. Le incredibili disfunzioni organizzative, il ritardo con il quale sono usciti i dépliant illustrativi dell’insieme della manifestazione, la gaffe dell’invito alle scuole e le scomposte reazioni organizzative contro i vari istituti, lo squallido tendone posto in piazza Duomo che accoglieva un insieme disordinato di libri e momenti di incontro con gli scrittori che venivano disturbati dai lavori edili nella piazza e da irrefrenabili scavatrici e compressori, i contenuti dell’insieme dei film presentati, la disattenzione con la quale è stata accolta una straordinaria edizione del premio letterario della montagna Itas, i temi che hanno animato i colloqui con i protagonisti delle ascensioni agli ottomila... Tutto questo ci ha descritto una montagna confusa, priva di prospettive e motivazioni, quindi di attrattiva.
Si può dire che questo insieme fortuito di situazioni abbia contribuito a rendere efficace, ben visibile nel Filmfestival la morte dell’alpinismo. Non è una bella consolazione per il Filmfestival aver raggiunto un simile traguardo, ma la colpa non ricade sulla organizzazione, quest’ultima ci ha messo del suo, ma in modo inconsapevole, peccando di superficialità e di improvvisazione.
I percorsi veri della morte dell’alpinismo li abbiamo letti nei film presentati: un alto livello di tecnologia, uso di mezzi artificiali, attenzione al paesaggio e agli argomenti naturali, ai costumi delle genti di montagna, ai viaggi. Ma non si sono lette le storiche motivazioni profonde che hanno costruito l’alpinismo.
Era probabilmente difficile cogliere tutto questo nel seguire la proiezione di 70 opere: molto più semplice il riassunto fornito in due sole ore dai protagonisti della conquista degli ottomila.
Il mitico Hillary, il primo uomo ad aver raggiunto la vetta dell’Everest, ci presentava i valori umani e la solidarietà presente in una squadra, cosa significasse l’avventura dell’avvicinamento e contemporaneamente, in modo laico, ci presentava la situazione d’oggi, la presenza sotto la montagna di 50 spedizioni, le salite commerciali, la realtà drammatica di 200 morti, il mercato del macabro, con ditte che sponsorizzano il recupero di queste vittime, la sola logica della conquista.
Kurt Diemberger ci presentava invece un altro aspetto dell’alpinismo degli anni ’50, la ricerca della leggerezza, della velocità di ascensione, il puro stile alpino: ma sempre presente lo spirito di squadra, la necessità di scambio umano, di solidarietà, anche tra persone estremamente difficili, anarchiche nello spirito e a volte scontrose come sono gli alpinisti.
Anche Carsolio, pur molto più giovane, ci ha trasmesso un alpinismo che è ancora forte di gioia, aspro e dolce al tempo stesso, dove i rapporti umani sono al centro dell’avventura.
Ma oggi cosa si vive anche in Himalaya? Lo specchio della nostrà società ha detto Fausto De Stefani: la fretta della gente, la toccata e fuga, le spedizioni commerciali, i grandi sponsor, la colonizzazione, l’inquinamento della cultura degli sherpa capaci anche loro, come noi europei ed i giapponesi, di abbandonare delle persone vive a una morte solitaria lungo le ascensioni, l’emozione che si misura sulla base delle altezze delle montagne.
Mancava al dibattito un invitato importante, Franco Meraldi, capace di raggiungere l’Aconcagua (la più alta vetta della Patagonia) in meno di quattro ore, o i tanti capaci di costruire record facendosi trasportare da una cresta all’altra, o sui ghiacciai, con elicotteri, e poi farsi riportare indietro, isolando la cima, l’obiettivo, dal contesto dell’avventura.
Angelo Da Polenza, inconsapevolmente, rappresenta il massimo apice della sconfitta culturale dell’alpinismo. Da anni assieme al CAI e al CNR sta potenziando la struttura della piramide: l’edificio, che sembrava nato per la ricerca scientifica, sta diventando base d’appoggio per qualunque spedizione: per facilitare l’arrivo al campo base dell’Everest si allargano strade, si improvvisano trekking con qualunque persona si autodefinisca alpinista, si potenzia la struttura in nome della sicurezza. E’ quest’ultima la parola chiave scoperta dal CAI, la scusa attraverso la quale si giustifica qualunque intervento, in qualunque ambiente.
Dietro questo termine si nasconde sempre il falso: chi frequenta la montagna sa quanto sia fragile il confine della parola sicurezza, quanti siano e quanto complessi gli elementi che determinano una situazione, quanto sia sottile, a volte impercettibile, il confine fra il dramma e la vita. Questa esasperata ricerca della sicurezza costruisce nel frequentatore della montagna l’illusione di essere un alpinista, un’illusione che ben si esemplifica nel frequentatore di ferrate, in chi, attaccandosi a della ferraglia, è convinto di arrivare a conoscere il linguaggio più profondo della montagna, della roccia, dell’arrivo in vetta.
La ricerca della garanzia della sicurezza, le spedizioni commerciali, le pareti vissute come luogo dei record e quindi banalizzate a palestre dove far sfoggio di muscoli, sono state la tomba dell’alpinismo che abbiamo conosciuto dalla fine del 1700 fino agli ultimi anni di questo secolo. Il Filmfestival della montagna non si è ancora accorto di questa situazione e continua a proporci una serie di appuntamenti ormai superati. Non si legge ricerca, non si trova fantasia dentro quelle sale. Eppure la possibilità che ha una simile manifestazione di riportare orgoglio, dignità e verità sulla montagna sono molte: De Stefani ha posto il problema ambientale, quello del tempo, quello della cultura.
Tutti temi validi; ma perché non interrogarsi anche ed ancora, in profondità, sullo spirito dell’avventura, sulla solidarietà di gruppo? Perché non lanciare altri obiettivi dell’esplorazione, perché - come si è chiesto Nives Meroi - imbrigliare l’alpinismo in definizioni, limitandone la libertà, sua caratteristica fondante?
Se è vero che l’alpinismo è morto, perché andare in Himalaya o in Patagonia solo per prendere, per portarne via fama, soldi, successo, patrimonio culturale, investire in musei in Europa, e non portare anche qualcosa in quelle terre?
E’ quello che da anni sta facendo Edmund Hillary, nell’impresa più importante più impegnativa, più lunga e tutt’ora attiva, nonostante l’età, della sua vita: spendersi in solidarietà costruendo ospedali e centri di ricerca culturale.