Pretesti di guerra
La campagna elettorale del presidente Zedillo comincia con l’invio dell’esercito in Chiapas.
Maggio, mese degli amori e delle rose, annunci d’estate, dolce tepore seducente... Ma dal profondo sud del Messico, dalla Selva del Chiapas, spira un’aria di tutt’altro genere.
Mancano due mesi alle elezioni presidenziali e statali. Il presidente del Messico Ernesto Zedillo, ormai agli sgoccioli del suo mandato, sta cercando di sferrare il colpo di coda per garantire al suo partito un ennesimo successo elettorale (ottenuto negli ultimi 70 anni grazie allo scrupoloso impiego del bastone e della carota). Il calendario politico nazionale gli offre, tra il 2 luglio ed il 2 dicembre, un ineguagliabile periodo di interregno per saldare i conti con i ribelli zapatisti della Selva Lacandona senza inficiare il periodo pre-elettorale.
Ma l’orologio corre più del previsto e le forze democratiche dell’opposizione si fanno sempre più forti anche perché nella zona di influenza zapatista, nel cuore della Selva, è aumentato e sta aumentando pericolosamente il numero delle persone che hanno provveduto a registrarsi presso l’Ufficio Nazionale Elettorale, acquisendo in tal modo il diritto di voto. Meglio dunque affrettare le cose e sfruttare tutte le opportunità per rafforzare nello sprint finale l’incidenza della classe politica oligarchica sull’opinione pubblica nazionale.
Non è più tempo di tacere la questione del Chiapas, offuscata fino ad ora dinanzi alla cittadinanza messicana ed internazionale dalla definizione di "episodio isolato nella storia regionale del Messico". Non rimane che fare di necessità virtù. Bisogna dimostrare che i ribelli contadini del Chiapas non hanno alcun desiderio di seguire il cammino pacifico delle riforme per ottenere giustizia, ma senza rivelare, d’altro canto, le velleità sotterranee del governo: porre fine al problema una volta per tutte con mezzi drastici ed a qualsiasi prezzo umano.
La tattica è presto spiegata. Si tratta di stringere l’assedio militare nei confronti delle comunità zapatiste fino a costringerle a reagire. Il primo che attacca è il colpevole, l’altro deve solo difendersi: a quel punto nessuno potrà più condannare un’azione di forza contro i villaggi indigeni ribelli da parte dell’esercito messicano e degli svariati corpi di polizia - di fatto sezioni staccate dell’esercito - alle quali è stato riadattato lo statuto per giustificarne l’intervento che, nel caso del Chiapas, a scopo demagogico e propagandistico, è stato definito come un problema di sicurezza interna anziché di sicurezza nazionale.
Cosa manca? Il pretesto. Dopo il brigantaggio, il narcotraffico, il neonazismo (il subcomandante Marcos, leader carismatico del movimento indigeno zapatista, fu assimilato ad Hitler), si è visto emergere in questi primi giorni di maggio il "pretesto ecologico". Come? Scaviamo alla radice dei fatti.
Anno 1978. Nelle regioni selvatiche ad Est del Chiapas, tra la frontiera con il Guatemala e la Selva Lacandona, fu delimitato un territorio protetto che venne chiamato "Riserva Integrale della Biosfera dei Montes Azules". Con questo atto, oltre a frenare il saccheggio di legname prezioso (il cosiddetto "oro verde") ed a proteggere uno dei più importanti bacini selvatici di sempreverdi del Centroamerica, venne riconosciuto definitivamente che quella terra venisse occupata dalle popolazioni indigene ivi stanziate da secoli, non solo per diritto giuridico ma anche e soprattutto per diritto storico. In realtà, al tempo stesso, i medesimi grandi imprenditori del legname convinsero i pochi ed ignari indios dell’area ora protetta della necessità di continuare lo sfruttamento delle risorse naturali, di modo che la comunità indigena di fatto continuò ad essere vista come un invasore di proprietà.
Quando nel 1994 scoppiò la rivolta zapatista proprio a causa della questione delle terre (bene inalienabile per la semplice economia indigena di auto-sussistenza), la Selva Lacandona e la zona dei Montes Azules divenne il nodo nevralgico delle forze rivoluzionarie, luogo in cui si concentrarono le genti indigene che aderirono alla rivoluzione.
Il tempo passa, il passato si fa presente; gli eventi umani si intrecciano con gli eventi naturali. Da anni, durante la stagione secca (da febbraio a metà maggio), le foreste del Chiapas vengono distrutte da incendi che creano danni gravissimi all’economia locale. Già dall’anno scorso molte unità dell’esercito messicano sono stanziate nella zona della riserva con il pretesto della riforestazione dei Montes Azules. Oggi, data la congiuntura elettorale e l’imminenza della stagione delle piogge, le forze dirigenti del partito al potere decidono di non porre tempo in mezzo: in nome della difesa degli alberi della riserva e della lotta agli incendi progettano di inviare in Chiapas parecchie unità della PFP (Polizia Federale Preventiva), corpo armato di sicurezza pubblica composto da elementi dell’esercito cui è stato cambiato colore della divisa, con la pretesa di sgomberare 32 comunità insediate nella regione da decenni.
Ora il "pretesto ecologico" si svela in tutta la sua meschina e macchinosa falsità - come dire, l’aggressione da parte del governo ha un colore doppiamente verde (come osserva il giornalista Luis Hernandez Navarro): il verde delle divise militari e quello della difesa dell’ambiente.
Poco importa che la PFP non sia un corpo di pompieri e che non abbia ricevuto alcun tipo di addestramento per l’estinzione di incendi, e tanto meno importa che le aree dove effettivamente il fuoco ha sconfinato oltre i limiti di controllo siano ubicate in realtà ad una certa distanza dalla Selva. Importa invece riconoscere che le comunità indigene oggetto dello sloggiamento preventivo giochino un ruolo centrale nel lungo cammino di resistenza del popolo autoctono, afflitto dalle conseguenze di un’economia nazionale iscrivibile a pieno titolo nella cornice della globalizzazione.
Così come è curioso notare che Jorge del Valle, sottosegretario per gli Affari Forestali e sostenitore della necessità di inviare la Polizia Federale Preventiva in Chiapas, fu uno dei principali incaricati governativi al tempo in cui, nel 1996, le forze rivoluzionarie concertarono con il presidente Ernesto Zedillo un piano di riforme pacifiche in senso democratico, i cosiddetti dialoghi di San Andrés, in seguito più volte traditi dallo stesso partito che li aveva sottoscritti.
Ancora una volta il governo priista (del PRI, Partito Rivoluzionario Istituzionale, che dietro la cortina di fumo della parola "rivoluzionario" maschera le velleità di potenza di una classe molto ristretta) mostra di anteporre l’esercito alla politica, le armi alla democrazia, la violenza alla pace. Le stesse radici antropologiche ed umane dell’obnubilamento delle coscienze che sta alla base di questa guerra succhiano nutrimento da queste dicotomie. "Omaggio e vergogna" è il paradosso con il quale lo storico Carlos Montemayor chiarisce le ragioni di un’attitudine riscontrabile in Chiapas e diffusa in tutti i Paesi reduci dell’esperienza coloniale. "Crediamo di discendere da due grandi fonti culturali e sociali: gli spagnoli e gli indios dei tempi preispanici. Ci hanno fatto credere che abbiamo ereditato la grande cultura preispanica e ci siamo appropriati di essa senza nessun compromesso con le popolazioni che realmente sono discendenti di sangue del vecchio popolo. Come in una specie di schizofrenia sociale, abbiamo aperto un grande abisso tra le popolazioni indigene attuali e quelle dell’era preispanica. Omaggiamo la figura astratta dell’indio del passato ma ci vergognamo dell’indio del presente".
In Chiapas si concentra la storia di questa rinuncia, la vecchia storia del nostro razzismo.