I corrotti rialzano la testa. E’ inevitabile?
Etica e politica, cultura della legalità, magistratura e partiti, in un franco dibattito di Società Aperta. Con avvenimenti che sconfortano, e altri che fanno sperare.
"Etica, legge, politica": un dibattito su questi temi, svolto all’indomani della vistosa vittoria elettorale di un pluri-inquisito e pluri-condannato? E, dalle nostre parti, nei giorni del riemergere di un personaggio pubblico dichiarato responsabile di corruzione dalla Cassazione, ma che però intende farsi pagare dalle casse pubbliche le spese processuali?
"Beh, avete il merito di affrontare un argomento fuori moda" - ha difatti riconosciuto l’on. Olivieri agli organizzatori, l’associazione "Società Aperta". Merito indubbio, spesso sono proprio i temi fuori moda, quelli più o meno elegantemente rimossi, come la spazzatura sotto il tappeto, a dover essere trattati. Se c’è una rimozione, l’aperta discussione non può che essere positiva. Anche se la discussione non è semplice né scontata.
E questo si è visto infatti nel dibattito di "Società Aperta", che si è svolto su due livelli: il primo, sul quesito se vi sono stati strappi istituzionali nella vicenda Mani Pulite; il secondo, incentrato sulle dinamiche, culturali e istituzionali, che generano la corruzione, e quindi sugli antidoti.
Il primo livello può apparire sconfortante, e forse lo è: una parte della società non considera un problema la corruzione, ma coloro che vi si oppongono. Come in Sicilia, nei film sulla mafia e nella realtà: il problema non è l’organizzazione criminale, ma i magistrati "smaniosi di apparire" che tendono a contrastarla. Ma questa posizione, che esiste, è bene che emerga, si confronti.
Nel dibattito di "Società Aperta" è stata sostenuta, in parte, dall’avv. Arrigo Monari ("Sentiamo la mancanza di una magistratura che non faccia politica giudiziaria") e soprattutto dall’avv. Adolfo de Bertolini. Il quale, con esemplare chiarezza, ha lamentato il debordare della magistratura, "che deve applicare le leggi, non fare la lotta alla corruzione. Le leggi anti-corruzione deve farle il Parlamento." Da questa fuoriuscita dal proprio ruolo e potere, secondo de Bertolini, tutta una serie di errori, arbìtri, degenerazioni delle dinamiche processuali, gravissime, perché "il processo è la cartina di tornasole della democrazia; è attraverso il processo iniquo, che storicamente il potere si libera delle persone scomode".
A questa interpretazione si è opposto l’avv. Renato Ballardini, che ha affermato di non capire il concetto secondo cui la lotta alla corruzione deve farla il Parlamento: "Il Parlamento fa le leggi, la polizia indaga, i PM istruiscono i processi, i giudici giudicano: c’era un ramificato sistema corruttivo e tutto il meccanismo repressivo - una volta saltato il tappo politico-sociale che, prima della caduta del Muro, sopportava la corruzione per timore di dar spazio al pericolo comunista - ha svolto il suo compito."
Eccessi? Errori? "Ci sono senz’altro stati; ma sono fatti marginali."
Analogo discorso per la tesi di Monari, sul debordare della magistratura: "Siamo in presenza di una paradossale inversione di ruoli nella dialetticagiustizialismo/garantismo: in una situazione normale il governo dovrebbe essere giustizialista, la magistratura baluardo delle garanzie; in Italia è avvenuto il contrario." Situazione che invece a noi pare del tutto logica: trattandosi di corruzione politica, e non di furtarelli, è quasi un riflesso automatico la tendenza iper-garantista del ceto politico (che evidentemente con la questione morale non ha fatto ancora i conti). Ne ha fornito diretta, cruda testimonianza l’on. Luigi Olivieri (Ds): "Le norme anti-corruzione nella pubblica Amministrazione sono state prima stravolte, poi affossate: a riprova del fatto che la politica non tollera limitazioni, rendiconti, controlli; attraverso modifiche costituzionali - il ‘giusto processo’ - e altro, abbiamo esteso le garanzie a dismisura, imbrigliato il processo penale, varato una giustizia che sicuramente tutela i ricchi."
Perché tutto questo? Perché i politici sono brutti, sporchi e cattivi? Certo, ma non basta. Perché oggi la società civile tutto questo lo accetta con tranquillità? Attorno a questi interrogativi si è svolto il secondo livello del dibattito. Che è partito, nelle parole di Michele Nicoletti, docente di Filosofia, dalla scarsa cultura del rispetto delle leggi nel nostro paese, derivante da una valutazione negativa, di forma vuota da utilizzare per i propri fini, che della legge danno le grandi culture popolari, quella marxista (Stato di diritto=legge borghese) e quella cattolica (legge statale=ideologia relativista). Cui storicamente si è sovrapposta un’ostilità della cittadinanza nei confronti della polizia e anche della magistratura, visti come strumenti di una classe, o armi di governi (potenzialmente) occhiuti e autoritari. Una visione (che nel dibattito era stata espressa da de Bertolini) opposta a quella anglosassone, nella quale la magistratura non è vista come strumento di sopraffazione del cittadino, ma di tutela.
Su questa cultura di fondo - peraltro in lenta evoluzione - si innesta il ruolo del politico: il quale, dalla sovranità della legge, dalla cultura delle regole, vedrebbe ridotta la propria funzione di mediazione, con tutte le conseguenze: (clientelismo, nomine, ecc); e a questo non intende rinunciare.
Ma il nodo vero non sta nel mondo della politica, ma nella società, della quale, anche in questo caso, la politica è un riflesso, sia pur in parte distorto. E allora il problema è, secondo Ballardini: come far crescere la coscienza etica di un popolo? Tenendo presente, per non essere pessimisti ad oltranza, che non si parte da sottozero.
Quando la corruzione era diventata normale prassi di governo, la reazione della società, ai tempi di Mani Pulite, è stata dura, ed oggi - almeno secondo Ballardini - non siamo più a quei livelli. Quindi una certa reattività di fondo c’è, pur minimale; anche se oggi il pendolo della pubblica opinione porta a chiedere il massimo rigore contro il balordo, e le massime garanzie per il colletto bianco.
Soluzioni il dibattito non ne ha fornite. Però ha proposto stimolanti indicazioni, che riportiamo cercando di legarle assieme, attraverso nostre osservazioni.
Ballardini invita a riconsiderare il rapporto etica/politica, allargandolo a quello etica/economia. Come Machiavelli aveva teorizzato che la politica, per raggiungere i suoi obiettivi, non è tenuta a rispettare l’etica (e così il governante può decidere guerre, assassini e quant’altro alla bisogna), così l’economia, per raggiungere risultati, può - anzi deve - passare sopra i vincoli, i freni dell’etica: opprimendo popoli, devastando l’ambiente dall’Amazzonia alla Jumela, o anche (semplicemente?) mettendo sul lastrico le famiglie dei dipendenti licenziati. "E’ un contrasto che investe tutta la società", ma sul quale - aggiungiamo noi - sta forse formandosi a livello mondiale una nuova consapevolezza: le proteste di Seattle e di Washington pongono una nuova diffusa domanda di eticità, nella politica come nell’economia, che può diventare cultura di massa.
Nicoletti rimane all’ambito politico-sociale: e sottolinea come il basso livello etico, la scarsa considerazione verso le leggi, abbiano consegnato nelle mani di partiti e corporazioni i meccanismi di promozione sociale, con il ben noto risultato della selezione dei fedeli, invece che dei migliori. La battaglia di una generazione è stata quella di far prevalere il principio di legalità su quello di appartenenza (a partiti, ecc.): i risultati sono deludenti.
Ma ne siamo sicuri?
E’ stata persa la guerra o una battaglia?
In tutta la spinta verso le privatizzazioni, il primato del mercato, ecc., oramai assunta anche dalla sinistra, non vi è al fondo un’idea cardine: sostituire la promozione sociale decisa dalla politica in base al principio di fedeltà, con quella decisa dal mercato in base ai risultati? E quindi l’intento di sostituire la società organizzata intorno alla necessità di avere le entrature giuste, con quella organizzata intorno al riconoscimento delle capacità?
In fin dei conti, anche nell’ultimo risultato elettorale, che per alcuni è solo sconfortante, non si può invece leggere la stessa richiesta? Un basta deciso ai tredici partiti che litigano su come spartirsi la società; e un sì a chi rappresenta (o dice di rappresentare) la società che vuole reggersi da sola, senza dipendere dagli appoggi in alto loco?
Così interpretate, le due riflessioni, di Ballardini e Nicoletti, si completano: una società affrancata, attraverso concorrenza e mercato, dalla servitù alle nomenklature, rischia di trovare nuovi e più spietati padroni nei crudi meccanismi dell’economia; pericolo che si può evitare solo ricongiungendo economia ed etica; e riconducendo la politica, sfrattata dalla gestione dei micropoteri, al ruolo alto di regolatore dei grandi meccanismi.
Sono solo utopie? Forse sì; ma non dimentichiamo che sono anche tendenze fortemente presenti nella società, che - a modo suo - risveglia bruscamente chi si adagia sul cinico tran tran di "realistiche" gestioni dell’esistente.