Una nuova carta d’ identià
Giuliano Ferrara è letteralmente schiattato, cioè scoppiato dalla rabbia quando, a "Porta a porta", si è trovato davanti un Veltroni calmo, addirittura serafico, che gli ha ricordato con provvidenziale perfidia che lui era stato comunista, poi socialista, poi di Forza Italia e "poi non si sa". Tanto che la sua incontenibile collera si è persino abbattuta su Alba Parietti, che era presente, come avviene di consueto nella trasmissione di Bruno Vespa, quale ospite senza merito ma anche senza colpa. E l’indomani, sul suo Foglio l’elefantino liquidava il congresso dei DS come "parata di regime" e definiva Veltrone e D’Alema e tutti i dirigenti del partito semplicemente come "finti", cioè come fasulli, simulati, solo apparenti, irreali. Lui, al contrario, era stato un comunista serio, mentre loro, i diessini di oggi, sono soltanto dei soldatini da parata.
Giuliano Ferrara è per certo un uomo intelligente e passionale. E’ più autentico degli altri due campioni della propaganda della destra berlusconiana, Vittorio Sgarbi e Vittorio Feltri. In lui c’è, verso Veltroni e compagni, anche un risentimento, quasi un umiliato complesso di superiorità assente negli altri due, che assomiglia molto invece all’atteggiamento di altri vecchi comunisti, come quello recente, e sorprendente, di Alessandro Natta, o di Achille Occhetto, o, talvolta, di Emanuele Macaluso.
Sono espressioni di uno stato d’animo stagnante di una cultura che non sa rigenerarsi, di un pensiero dominato e paralizato dalla memoria. Lo ritroviamo in socialisti come Intini (o come il nostro Zoller) che non riescono ad uscire da una esperienza che li ha feriti profondamente e restano prigionieri di un incurabile rancore. O in democristiani come Piccoli (o il nostro Pancheri) che si cullano in una patetica nostalgia per un tempo passato, che certamente fu anche positivo, ma che è stato archiviato non solo dalle sentenze penali, ma anche dalla caduta del muro di Berlino e dai referendum sul sistema elettorale.
La faticosa transizione per superare la prima Repubblica non è, o Giuliano Ferrara, una finzione. Essa si accompagna all’innovazione in tutti i settori della vita, e quindi anche nella politica. E i protagonisti di tale innovazione non sono "finti", sono autentici creatori di un nuovo assetto politico che sia adatto alle esigenze di un mondo che cambia.
Il congresso dei Democratici di Sinistra di Torino è stato per l’appunto questo: la costruzione di una nuova identità della sinistra italiana, e la ricerca della sua collocazione in un nuovo sistema organico di alleanze federate. Io non ho mai avuto simpatia per la carta di identità. Fra i documenti di riconoscimento ho sempre preferito o il passaporto o la patente o la tessera dell’Ordine forense. Ciascuno di questi documenti non definisce solo la mia statica identità anagrafica, ma mi conferisce anche delle facoltà: o di attraversare i confini dello Stato, o di guidare un veicolo, o di visitare in carcere i detenuti che devo difendere. Insomma, sono documenti con un contenuto di azione dinamica evolutiva, viva perché certificano la mia identità correlata a comportamenti variabili e concreti della mia esistenza. La carta di identità è invece come una pietra tombale. Si anima flebilmente solo quando si estingue, perché quando scade devo rinnovarla con una fotografia nuova. Attesta insomma una identità immutabile, inespressiva come una sfinge. E quindi, in realtà, è finita, come direbbe Giuliano Ferrara. Perché nella realtà, invece, l’identità della persona muta continuamente: io, secondo la carta di identità, sono lo stesso di quando avevo 15 anni, ma quanto mutatus ab illo! Eppure non ho smarrito la memoria della mia vita.
Dunque anche l’identità di un partito muta e si definisce in modo diverso nelle diverse condizioni storiche, senza che ciò significhi cancellare le "storie" di chi lo compone, come ha ricordato Veltrioni nella sua ricca ed onesta relazione. Più della metà degli iscritti ai DS non provengono dal PCI, e questa è la riprova matematica di una confluenza di storie diverse che ha determinato nel partito una mutazione di qualità che solo Silvio Berlusconi si ostina a disconoscere, ed è una qualità di sinistra anche se dal lessico congressuale è quasi del tutto scomparsa la parola "capitalismo" che tuttavia è rimasto al centro di una elaborazione critica rigorosa e moderna. Attorno alla quale si è ritrovata una bussola che orienta tutti i militanti, pur con le sfumate differenze connesse ai loro diversi ruoli. Uno è quello di Veltroni, segretario del partito, altro è quello di D’Alema che guida un governo di coalizione, diverso ancora è il compito di Cofferati, a capo di un sindacato di lavoratori.
Si comincia dunque a vedere la fine del tunnel della transizione. Torino sembra aver posto le basi per un fecondo vero nuovo inizio. Il Lingotto non è stato il tempio dell’odio: on. Berlusconi, non c’è odio per l’avversario. Purtroppo però non c’è stima per esso. Eppure sarebbe desiderabile per il bene della Repubblica, potersi confrontare con un avversario degno di essere stimato