Ma che sta succedendo a D’Alema?
Leggo su L’Unità (24 aprile) che dopo aver dichiarato che le azioni della Nato devono essere studiate con l’obiettivo di "ridurre al massimo" la possibilità di "colpire le vittime civili", il nostro premier ha aggiunto, a proposito dell’attacco al palazzo della Tv di Belgrado, che "non possiamo dimenticare che quello è il paese dove un giornalista libero è stato assassinato in pieno giorno e questo riduce di molto la mia indignazione per l’attacco contro la Tv serba". Si badi che in tale attacco hanno perso la vita almeno 15 persone al servizio della emittente di Milosevic e D’Alema, quando ha fatto la menzionata dichiarazione, lo sapeva.
A me sembra che questa dichiarazione sia un sintomo raccapricciante. Voglio sperare che mentre pronunciava quelle parole fosse stanco o avesse allentato quel vigile autocontrollo che di norma lo caratterizza. Insomma, che non si rendesse conto di ciò che stava dicendo. Se non è così, vuol dire che anch’egli è stato inghiottito nella logica perversa e barbara che ispira l’attacco della Nato, secondo cui ogni mezzo, anche il più inumano, è giustificato dal fine umanitario perseguito.
Analizziamo un momento la frase che ho citato. L’indignazione provata da D’Alema per l’uccisione volontaria di dieci giornalisti serbi è stata "ridotta di molto", cioè così affievolita che non si è nemmeno manifestata, al solo ricordo che qualche giorno prima era stato assassinato un giornalista libero. Nella sua valutazione etica la soppressione premeditata di dieci giornalisti del regime trova una quasi (spero!) giustificazione nel precedente assassinio di un giornalista di opposizione.
La coincidenza casuale dei numeri riecheggia le decimazioni barbariche: se il regime assassina un giornalista oppositore, ben può l’angelica potenza punitrice della Nato ammazzare dieci pennivendoli asserviti al tiranno. Magari fra quei dieci vi era anche qualche serbo vittima della pulizia etnica compiuta dai croati o dai musulmani bosniaci o qualche fuggitivo della guerriglia con l’Uck. Ma queste considerazioni sono sentimentalismi da imbelli pacifisti, indegni di chi è chiamato al duro compito del giustiziere.
So benissimo che Massimo D’Alema, se leggesse questa interpretazione delle sue parole, inorridirebbe e la respingerebbe con la più fiera indignazione. E tuttavia pare che sia difficile non attribuire ad esse il significato di un indizio preoccupante. L’indizio di una incipiente mutazione culturale provocata in lui dalla pesante responsabilità che in modo inatteso e repentino si è trovato a dover sopportare.
Ho avuto umana e politica comprensione per il grave imbarazzo in cui era venuto a trovarsi. Egli ha dovuto misurasi con due complessi: il complesso di essere stato comunista, originariamente ostile alla Nato e quindi esposto al rischio che le sue eventuali perplessità venissero attribuite ad un residuo sentimento antiamericano (al contrario Dini, filoamericano da sempre, si è sentito più libero di esternare le sue riserve); e il complesso di essere italiano, preoccupato di smentire la nomea storica che macchia l’Italia come alleato infido.
Si è destreggiato bene, credo con personale sofferenza, fra questi vincoli oggettivi e quelle che suppongo siano le sue convinzioni. Non dubito infatti che fin dall’inizio anch’egli avesse capito che l’intervento della Nato era illegittimo e, quel che è peggio, inefficace a conseguire i fini umanitari dichiarati. Ha fatto quel che poteva, imbrigliato anche in una compatta compagnia di governi "socialisti" europei, in tutto simili ai rispettivi antagonisti delle rispettive destre. La Thatcher e Kohl non si sarebbero comportati in modo affatto diverso da Blair e Schroeder e fra Jospin e Chirac non si nota alcun disagio nella loro coabitazione. E se la guerra dovesse continuare non ci sarebbe di che meravigliarsi se anche in Italia venisse a formarsi un gabinetto di guerra D’Alema-Berlusconi, del quale qualcuno già comincia a parlare. Ciò che sarebbe la prova del nove, cioè la conferma a posteriori che l’attacco della Nato, così come concepito e attuato, rientra nei tradizionali schemi della destra politica di ogni tempo.
Presentata come un’operazione di polizia a tutela dei diritti naturali di un popolo, in realtà è stato un atto di guerra di modello classico. Ora il fine non è più il diritto del popolo kossovaro, ma quello proprio di ogni guerra: vincerla attraverso la distruzione del nemico, costi quel che costi. Ai crimini contro l’umanità perpetrati da Milosevic si è risposto con i crimini di guerra della Nato. Naturalmente nessun tribunale di guerra giudicherebbe la parte vincente, cioè la Nato.
Ma, compagno D’Alema, non credi che sia il massimo della lealtà tentare di impedire che i tuoi alleati continuino a commettere crimini di guerra? Chiedere, dopo più di un mese di bombardamenti, dopo aver con abbondanza dimostrato la forza e la risolutezza dell’ingerenza umanitaria, che sia decisa una tregua, per tentare di risolvere il conflitto con le parole e non con la violenza, come ha ammonito Clinton dopo la strage degli studenti di Denver?