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La toponomastica contro la convivenza

Perché tanta testardaggine su una questione tanto controversa e così poco sentita?

Personalmente ritengo che la questione della toponomastica sia poco sentita dalla popolazione che gradisce bilinguismo e trilinguismo, e che essa costituisca piuttosto l’oggetto dell’attività politica di un pugno di estremisti, verso cui per ragioni incomprensibili una parte della SVP si mostra molto condiscendente.

E’ inoltre poco compreso fra le persone dotate di buon senso e fra i partners austriaci dell’autonomia sudtirolese, per quale modo l’abolizione dei nomi geografici in lingua italiana costituirebbe, come affermano i sostenitori di questa proposta, un sacro diritto della minoranza di lingua tedesca. Di certo si tratta di un avviso di sfratto per la popolazione di lingua italiana e uno schiaffo a quella ladina, che da parte sua potrebbe rivendicare la ladinità di tutti i toponimi, se il principio da applicare fosse quello revanscista dell’inizio della storia.

Nonostante il sentimento di esasperazione che una persona ragionevole prova per questo argomento, di fronte all’insistenza con cui si impone che gli organi istituzionali si occupino di questa faccenda invece che degli interessi della popolazione, è necessario fare alcune considerazioni

Il presidente Durnwalder annuncia una proposta con cui si intende "confermare alcuni toponimi in lingua italiana e tedesca", quelli che individua come "macrotoponimi", che sarebbero quelli che riguardano i centri sopra i 100 abitanti, mentre nelle località "con tre case" si tratterebbe di "microtoponimi". Questi ultimi verrebbero affidati ai comuni, lasciando ad intendere che essi potrebbero rinunciare al bilinguismo. Questa proposta è illegittima e sbagliata.

Anzitutto la divisione fra microtoponomastica e macrotoponomastica non ha alcun riferimento scientifico. Nella letteratura scientifica non se ne accenna: è un’invenzione sudtirolese. Dunque, se i criteri del giudizio sono arbitrari, non possono essere condivisi, e quindi non si può trovare alcun accordo sulla loro base. Il criterio sul numero di abitanti, già inficiato dall’obiezione di cui sopra, aggiunge arbitrarietà ad arbitrarietà, perché non si spiega quale logica faccia preferire questi numeri ad altri.

In secondo luogo, la materia può essere delegata o trasferita a chi si vuole, ai comuni (o ad un parente stretto di Durnwalder, se continuerà la deriva monarchica del suo governo), ma senza che venga meno il vincolo del bilinguismo. La gerarchia delle fonti giuridiche non può essere infatti ignorata e lo Statuto ha rango costituzionale.

Se non fosse così, questa operazione costituirebbe un grave rischio per l’autonomia: se dovesse passare il principio che la delega rende possibile l’annullamento del principio, i dettami dello Statuto anche in altri campi sarebbero messi in discussione, togliendogli la caratteristica di Carta costituzionale dei cittadini del Sudtirolo.

La toponomastica è una delle poche materie scottanti lasciate dallo Statuto ad una regolamentazione all’interno della stessa provincia, fatto salvo il vincolo del bilinguismo: i nomi si possono cambiare, se ne possono aggiungere di nuovi, ma all’interno dei limiti di questo vincolo. L’unico aspetto che costituisce un diritto negato è la mancata introduzione dei nomi in lingua tedesca e ladina. E a questo proposito il disegno di legge che li introduceva, presentato dalla sottoscritta, è stato per ben tre volte respinto dalla maggioranza. Tenuto conto della scarsa urgenza dell’argomento, il tentativo di procedere ignorando volutamente i limiti dello Statuto getta un’ombra grave sulle vere intenzioni con cui la SVP intende governare l’autonomia. Il partito etnico sembra avere difficoltà ad assumere la responsabilità di un partito di governo.

In terzo luogo, una considerazione politica. Il bilinguismo è il cardine fondamentale dello Statuto d’autonomia, è il principio che contraddistingue e differenzia l’autonomia sudtirolese, lo strumento con cui si radica la scelta della convivenza sullo stesso territorio di gruppi linguistici diversi, il contrario della frammentazione in aree "omogenee" (soluzione legittimata dagli accordi di Dayton per la Bosnia). C’è da dubitare che i governi italiano e austriaco accettino un atto che si inquadrerebbe in una politica di omogeneizzazione etnica.

Dunque: perché attizzare un conflitto su un argomento che annoia le persone ragionevoli, che non ha prospettive di soluzione, con la probabile conseguenza di rafforzare le destre etniche e indebolire l’area democratica su cui si basa la convivenza? Perché mettere in discussione lo Statuto in una fase in cui si chiede a tutte le forze politiche la disponibilità a modificarlo in modo consensuale?

Durnwalder è certamente consapevole di tutto ciò (anche nel suo partito esistono voci più che perplesse), e dunque come spiegare la sua insistenza a voler risolvere "ciò che Magnago stesso non ha risolto" (come ha scritto il giornale delle associazioni economiche nel 1997) ad ogni costo?

Queste domande sembrano senza risposta. O forse c’è una risposta semplice? Si vuole forse solo distrarre l’opinione pubblica per allontanare l’attenzione da imbarazzanti problemi di partito? In fondo sarebbe il meno peggio, benché sia amaro accettare la sproporzione fra egoismo di partito e i rischi di crisi della convivenza.