Identità sudtirolese
Che cos’è oggi l’identità sudtirolese? Chi è un “vero” sudtirolese? Ha senso chiederselo? Due episodi ripropongono una questione antica che dimostra che le tensioni etniche cambiano, ma non sono finite.
Negli anni Settanta si discuteva di “croce dell’identità”, un tema scottante che mescolava aspetti etnici e modernizzazione della società. Poi il dibattito sulla questione si è assopito. Ma ora due episodi ne hanno scatenato una rinascita inaspettata. Il primo ha avuto per protagonisti una delegazione del piccolo partito della destra secessionista Südtiroler Freiheit e il sindaco di Bolzano.
L’inossidabile Eva Klotz e due colleghi, fra cui un ex-vicesindaco Svp di Bolzano noto per le sue posizioni estremiste, si sono presentati al Municipio e hanno consegnato a Caramaschi una statua dorata raffigurante Mussolini, con la chiara intenzione di dare del fascista a lui e a tutti gli italiani.
L’indignazione del sindaco (che fascista non è né per età né per famiglia) è stata enorme: ha preso il dono sgradito e l’ha frantumato a terra, cacciando poi i provocatori dalla sala di giunta. Anche se un po’ di società fighetta arzigogola che ha esagerato e doveva prenderla con ironia, la reazione del sindaco tuttavia pare essere la spia di una realtà molto spiacevole. Infatti le provocazioni dell’estrema destra tedesca toccano un tasto dolente.
La maggioranza degli italiani è ormai muta davanti a tutto, strattonata fra i quattro gatti nazionalisti all’antica da cui non si sente rappresentata e la melma di “poltronisti” senz’anima, disposti a tutto pur di ingraziarsi il partito di maggioranza etnico e strappare un posticino da condividere con amici e fan cointeressati. Quando qualche italiano osa difendere in pubblico i toponimi usati ormai da generazioni, che lo Statuto prevede bilingui, viene tacciato di essere fascista o, se politico, di cercare facili voti (ammettendo dunque che esiste un’opinione popolare dissidente da quanto viene fatto nelle segrete stanze). Quando si fa notare che nella Convenzione per la riforma dello Statuto non ci sono sudtirolesi italiani mentre i secessionisti sono enormemente rappresentati, si alzano le spalle. Il principio del consenso fra popolazioni conviventi, che ha reso possibile la nuova Autonomia, viene sfacciatamente ignorato anzitutto proprio dai rappresentanti degli stessi gruppi.
Attraverso le vicende tormentate che nel dopoguerra hanno portato al riconoscimento dei diritti alle minoranze tedesca e poi ladina, molte persone hanno imparato a rispettare e ad apprezzare le differenze, e anche a farne un elemento della propria identità. Ora il rispetto sembra mancare.
L’identità, per chi non sia accecato dal nazionalismo o da ideologie totalizzanti o dalla presunzione che la propria religione sia la migliore tanto da volerla imporre agli altri, è una cosa complessa, che coinvolge tantissimi fattori. Spesso non ha a che fare in prima battuta con la lingua o il luogo nascita. Genere, relazioni familiari, istruzione, viaggi, amori, matrimoni, amicizie, esperienze, età, salute: tante altre cose ci fanno divenire ciò che siamo in questo momento e che non è ciò che siamo stati o saremo.
L’interpretazione separatista della autonomia ha spinto, a partire dal 1981 a fissare, definire, semplificare e in fondo impoverire l’identità di noi sudtirolesi di tutte e tre le lingue ammesse dalla legge. Come se fossimo solo lingua o nazione. Fuori coloro che non sono ammessi, mistilingue o altri, per loro niente rappresentanza politica, né impieghi statali. L’esclusione dai benefici di carattere sociale, come la casa o la borsa di studio, ha fatto soffrire gli individui che non sono entrati nelle gabbie, ma ha sofferto tanto anche lo spazio pubblico, privato di persone non allineate e coraggiose nelle scuole, nelle aule della rappresentanza, e ovunque.
Ma nonostante tutto, oggi la realtà plurilingue è cresciuta. È cresciuto anche il numero di persone che non fa troppo caso allo stigma linguistico. Ma nello stesso tempo - effetto dell’ostilità della politica verso la scuola bilingue e perfino verso l’insegnamento della seconda lingua - ci sono ampie aree di popolazione giovanile che rimangono del tutto chiuse nella propria lingua e “cultura”, vivendo la presenza degli altri con totale estraneità. La classe dirigente politica e amministrativa ha deciso che la lingua non sia più “seconda” ma straniera: nozioni tecniche e niente letteratura. Un’eresia e un delitto verso le giovani generazioni che non hanno elementi di comunicazione colti. E già ora si vedono gli effetti del mancato impegno verso la costruzione di una società integrata, che garantisca le differenti culture, ma faccia crescere anche il senso di appartenenza comune.
Si fa strada così un atteggiamento di reciproco disinteresse e di concorrenza fino al disprezzo verso persone di lingua diversa. Un esempio è l’esaltazione per la presunta superiorità della scuola tedesca in alcuni test internazionali rispetto a quella di lingua italiana (dove il numero di immigrati è di gran lunga superiore e richiederebbe sostegni inesistenti), che somiglia molto a quell’ingiustificato senso di superiorità di cinquant’anni fa della scuola italiana verso quella tedesca appena rinata (ignorando che dopo la cancellazione nei vent’anni del fascismo la scuola tedesca aveva bisogno di tempo per essere recuperata). Ci si rinfaccia Casa Pound e le decine di gruppi neonazisti, come se entrambi non fossero problemi comuni.
Ma il dibattito sul “vero sudtirolese” ha preso le mosse anche come reazione violenta e primitiva all’iniziativa di un’esponente dei Verdi che ha voluto importare dall’Austria il dibattito sulla laicità, mettendo in discussione l’opportunità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche.
In Austria la cosa è terminata con la decisione di vietare il burqa, in quanto non ha niente a che fare con la religione musulmana, ma proviene da tradizioni medievali che discriminano le donne. In Sudtirolo, l’intenzione era di far discutere di un tema che di fronte alla crescita di abitanti di altre religioni o dell’ateismo, ha certamente un senso.
Ne è seguito, sui social network e sui giornali, un vero linciaggio, non della proposta, ma della proponente: insulti, volgarità, minacce che sembrano non avere mai fine. Il tutto in nome di un cristianesimo certo malinteso (se non nella tradizione dell’Inquisizione). Il mondo politico ha reagito condannando l’ondata di violenti attacchi, ma il coro pro-crocefisso è stato unanime, e così gli argomenti: siamo occidentali, cristiani da secoli, e questo fa parte dei nostri costumi. Si sono uniti il vescovo, che si è perfino dichiarato non favorevole al divieto del burqa (sarà ignoranza o il tradizionale orrore cristiano per i corpi delle donne?) e il segretario Svp, che ha detto che la separazione fra Stato e Chiesa non è un valore.
In questa confusione è rinato il dibattito sull’identità sudtirolese.
Chi non va a messa, come la gran parte degli abitanti del Sudtirolo, o addirittura chi è ateo può essere un/una sudtirolese?
Per esserlo si deve portare il costume, seguire le usanze?
In realtà si tratta di un dibattito astratto. C’è un fatto che lo dimostra: nelle risposte, ma anche nelle domande su che cosa sia la “vera” identità sudtirolese, non si accenna mai al plurilinguismo del Sudtirolo, che è forse l’elemento più caratterizzante di una realtà che si può ignorare, nascondere, ma non cambiare.
Nei dibattiti l’uso di “tirolese” - invece che “sudtirolese” - da parte di alcuni è inteso ad escludere gli italiani e altri abitanti di altra origine, ma anche tanti mistilingue e perfino persone di lingua tedesca, che si possono sentire - anzi, molti si sentono perfettamente – sudtirolesi, abitanti di una terra plurilingue e multiculturale che ha in questo aspetto, oltre che nella natura, la sua speciale bellezza, ma non si sentono tirolesi, cioè austriaci strappati a una patria cui si vuole ad ogni costo tornare. Roba vecchia. Da piangere.