Le Coop nel 2000: se don Guetti...
Il rinnovamento nella cooperazione: indispensabile, annunciato, rimane nei discorsi dei convegni. Nei vertici resta l’antica vocazione al doroteismo; che a una base fin troppo dinamica, ormai non basta più.
"Nei consigli comunali, in quello provinciale, in Parlamento, sono continui gli attacchi, le denunce - talora con risvolti giudiziari - della destra, Lega e An in prima fila: le cooperative sono assistite, scorrette, clientelari, rappresentano un inquinamento della vita politica ed economica. Meno platealmente, ma su analoga linea d’onda, sono spesso gli artigiani, gli industriali, gli stessi sindacati; e così pure vari operatori economici, dai dirigenti di banca ai proprietari della celebre cantina, abbandonano i toni pacati ed hanno sbocchi di indignazione quando vengono a parlare della concorrenza del movimento cooperativo, sleale, protetta, mafiosa: "Sono giunti a filmare chi entrava nella nostra filiale, per poi chiedergliene conto nel consorzio agricolo"; "Hanno ottenuto con i soldi pubblici una posizione predominante, e adesso vogliono schiacciare tutti"...
"Beh, si sa, la concorrenza vera non piace, anche a chi si dichiara liberista - replica un dirigente del movimento cooperativo - Però..." E in effetti ci sono dei "però" grandi come case.
"Il problema di fondo - sintetizza Roberto Pinter, neo assessore diessino all’Urbanistica, anni fa funzionario della Lega delle cooperative - è l’attuale funzione storica della cooperazione, la ‘mission’ come la chiamano gli americani, la sua ragion d’essere." "Proprio così - ci dicono diversi interlocutori - le cooperative, travolte e dal proprio successo e dalle trasformazioni sociali, rischiano di perdere l’anima, di essere aziende come le altre. E quindi di non avere più senso."
La cooperazione, soprattutto in Trentino, ha avuto una funzione storica fondamentale: soprattutto nell’agricoltura e nel credito ha permesso prima la tenuta, poi la crescita di un contesto sociale altrimenti povero. "Ora però queste funzioni storiche hanno assoluto bisogno di essere ridefinite" - prosegue Pinter. Le grandi cantine come Cavit e MezzaCorona, che fondano spa, che aprono filiali in Cina, che viaggiano sui terreni della finanza e della globalizzazione, che rapporto hanno ancora con gli ideali mutualistici originari? Oggi don Guetti cosa avrebbe da dire?
Il problema non è uno sfizio intellettuale, da anime belle, è pressante. E difatti la Federazione Trentina delle cooperative negli anni scorsi ha avviato studi, riflessioni, convegni. Approdando a conclusioni molto definite: perno della cooperazione deve tornare ad essere il socio, oggi espropriato della propria funzione da un ceto di direttori/presidenti che, dietro la motivazione delle necessità manageriali, gestiscono un potere spesso diventato di fatto personale. "E’ in questione la sopravvivenza dello stesso movimento cooperativo" - proclamavano i massimi vertici, locale (Pierluigi Angeli) e nazionale (Luigi Marino) in un convegno ad hoc tenutosi, con fior di relazioni di illustri cattedrattici, nella sala di via Segantini "Bisogna obbligare gli amministratori a rispondere del loro operato, obbligarli alla trasparenza, essere in grado di sostituirli" - si tuonava dal palco. Nella platea, formata prevalentemente da presidenti e amministratori, in tanti si agitavano sulle sedie; mentre i più sgamati commentavano acidi nei corridoi: "Lasciate che parlino, i professoroni, li paghiamo per questo..."
Avevano ragione. Dopo il convegno, nulla è cambiato.
"La cooperativa, soprattutto nella versione trentina - piccola, aderente al territorio - ha senso perché vede il socio partecipare. Nella situazione attuale, con i rapporti dirigenti/soci che vanno avanti con i regalini, con le scelte fatte fuori dalle assemblee, con i soci che diventano importanti solo quando ci sono da fare sacrifici - ci dice un amareggiato pezzo grosso della cooperazione - la coop resta con tutta la sua crisi di identità: essere cooperatori oggi vuol dire ancora partecipare? E che spazi hai?"
Insomma, si è instaurato un doppio binario tra teoria/prospettive da una parte, prassi/convenienze dall’altra. Le prospettive strategiche indicano come necessario il riequilibrio del potere nelle coop a favore dei soci; propulsore di questo riequilibrio dovrebbe essere l’organizzazione centrale; l’organizzazione centrale però è espressione soprattutto dei direttori e dei presidenti. Risultato: la partecipazione dei soci continua a rimanere subordinata alle necessità di managerialità e agilità decisionale; gli amministratori vengono spesso "coperti" dalla Federazione anche quando scantonano.
"E oggi non c’è più, né per i rossi né per i bianchi, il cemento ideologico che teneva tutti uniti e tutto riusciva a giustificare - commenta Pinter - E quindi bisognerebbe capire che non può esserci la cooperativa mera finzione giuridica di un impresario di fatto; né d’altra parte il processo decisionale democratico può rallentare l’operatività dell’azienda."
La realtà comunque (100.000 soci, oltre 700 coop) è variegata, oltre che forte. E l’incidenza di questi problemi è anch’essa molto differenziata.
Molto acuta è proprio nel settore più robusto, quello del credito. Le Casse Rurali sono sempre più aggressive, continuano a conquistare quote di mercato: ma in esse il socio è un numero, sostanzialmente non si distingue dal cliente non-socio, nelle decisioni conta zero. E questo è un problema vero, perché la forza delle Casse è proprio nell’aderenza al territorio, nell’essere stato uno strumento decisivo per la promozione economica del singolo paese. Nell’era della globalizzazione, della finanza mondiale, delle macro-fusioni bancarie, la piccola banca locale potrà sopravvivere solo se intensificherà il rapporto con il territorio; se invece verrà vista come "una banca come le altre", è finita.
Anche il settore del consumo è critico: se la differenza tra il socio e il cliente non c’è proprio, qual è la differenza tra un supermercato Sait e Poli, e domani le catene tedesche? Si cerca la caratterizzazione attraverso due strade: una, seguita ci pare con insufficiente convinzione, è la promozione del "consumo critico", ossia delle proposte di prodotti eticamente ed ecologicamente corretti (rispetto all’ambiente e alle popolazioni del terzo mondo); la seconda, propagandistica anche se basata su dati reali, consiste nel sottolineare la grande importanza, per le realtà territoriali decentrate, dell’esistenza delle locali famiglie cooperative, oggi ancora possibile solo in quanto parte di un sistema integrato (Sait, famiglie cooperative di fondovalle).
Leggermente diversa la situazione nell’altro grande settore in cui la cooperazione ha storicamente svolto un ruolo decisivo, l’agricoltura. Anche qui nelle cantine, nei magazzini di frutta, nei caseifici sociali, e ancor più nei consorzi di commercializzazione (come Cavit o Melinda o Trentingrana, per intenderci) il socio è marginalizzato, i direttori - in rapporti d’affari con il mondo intero (pensiamo a Giacomini di Cavit o Rizzoli di MezzaCorona) sono onnipotenti. Eppure il contadino, che nelle grandi scelte conta zero, ha un ruolo di controllo effettivo: la fiducia al megadirettore gliela dà non solo in assemblea, ma conferendogli i prodotti; se non valuta adeguati i prezzi corrisposti o se non condivide scelte di fondo, il contadino la sua uva la porta in un’altra cantina. Il meccanismo segue più le leggi del mercato che non gli ideali cooperativi; ma in qualche maniera funziona.
Più recente (in Trentino) l’esperienza delle cooperative di produzione-lavoro. Importanti in quanto potrebbero, secondo gli ideali mutualistici, ridefinire il ruolo del lavoratore all’interno dell’impresa, sono da noi nate soprattutto come strumento del famoso "progettone" dell’epoca dell’assessorato Micheli: coop che assumevano ultracinquantenni rottamati dalla crisi industriale, e svolgevano progetti di ripristino ambientale commissionati dalla Provincia. Alcune di queste cooperative si sono rafforzate, svincolate dagli appalti pubblici riservati, e oggi trovano lavoro anche fuori provincia; altre sono rimaste Pat-dipendenti, e oggi versano in situazioni precarie.
Altro fronte, nuovo e interessante, è quello delle cooperative di solidarietà sociale, che inseriscono nell’attività lavorativa degli handicappati (su cui pagano minori oneri previdenziali): qui è evidente la rispondenza della forma-cooperativa a tale finalità ("Certo, una ditta privata potrebbe anch’essa assumere degli sfigati, se è conveniente; ma sempre sfigati restano; mentre la coop è strutturalmente orientata al reinserimento" - puntualizza Pinter). E la formula si è rivelata produttiva: le cooperative sociali spesso vincono appalti (l’ultimo sul mantenimento del verde del Comune di Trento) in concorrenza con aziende private.
Come si vede, l’articolato mondo della cooperazione è quantomai vivace. E l’irrequietezza che l’attraversa è anche frutto di questo dinamismo, talora un po’ anarchico, che non trova più nelle organizzazioni quello che cerca: prospettive per il futuro, rappresentazione in sede politica, formazione e servizi.
Delle prospettive abbiamo detto: grandi convegni, parcelle ai luminari, e poi il tran tran. Anche i servizi cominciano ad essere inadeguati e sono sempre più le cooperative che si affidano al proprio commercialista. La formazione risente dei classici difetti delle fabbriche di corsi, spesso istituiti perché permettono alla struttura di andare avanti, più che perché diano risposte a bisogni della base.
Rimane il discorso della rappresentanza sindacale-politica, quantomai necessaria, vista l’aggressiva ostilità (non sempre del tutto immotivata) della destra. E qui il discorso si fa personale, sul presidente-boss della Federazione Cooperative, Pierluigi Angeli. Già presidente della Giunta provinciale, democristiano, anzi doroteo doc, Angeli è un pragmatico: libero da preclusioni ideologiche, ha felicemente aperto, primo in Italia, alla cooperazione rossa, con esiti assolutamente positivi; ma nei rapporti politici è rimasto al vecchio schema doroteo. Non un rapporto trasparente, basato su quello che la cooperazione è e fa, sui meriti storici e su quello che oggi propone per il Trentino; ma il rapporto mellifluo, basato sulle entrature, gli ammiccamenti, le pacche sulle spalle all’assessore, le promesse di appoggi elettorali. Con risultati tutti negativi: di essere poco efficaci (con la caduta delle ideologie, i voti non li controlla più nessuno, e alle ultime elezioni i candidati ufficialmente sponsorizzati dalla cooperazione - Flavio Mosconi in Forza Italia e Ermanno Villotti nella Margherita - sono stati trombati); poco credibili (di uno scandaloso intorto dello scorso anno tra Angeli e Grandi nel cda di Mediocredito si parla ancora con rabbia nel mondo del credito, con vergogna in quello della cooperazione); e di prestare il fianco alle bordate degli ultra-liberisti.
Il fatto è che Angeli, da classico politico navigato, ha creato il vuoto attorno a sé, emarginando le personalità, e promuovendo i mediocri. Questo giochino non funziona più all’esterno (quando alla presidenza della Camera di Commercio ha lavorato per nominare l’industriale Garbari, debole e manovrabile, ha subìto una sonora sconfitta); ma all’interno riesce ancora ad imporlo. E così, nella povertà dei massimi dirigenti (tralasciamo per carità i soprannomi che si sono meritati sul campo), riesce ancora ad essere il solo punto di riferimento per l’insieme del movimento.
E, ahimè, i nuovi che lavorano per subentrargli (Schelfi di Delta Informatica, Fiorini del Sait) al momento sembrano non avere un orizzonte diverso: solo un aggiornamento del referente politico, Dellai al posto di Grandi. Il movimento cooperativo meriterebbe di meglio.