Coop trentine fra manager e soci
E’ cambiato il presidente della Federazione, da Angeli e Schelfi. Ma soprattutto, in questi anni ha cambiato pelle il movimento cooperativo. Storia di un successo, e dei non piccoli problemi che esso pone.
Pierluigi Angeli, vecchio doroteo, già presidente della Giunta Provinciale (prima di Malossini) cede il bastone del comando al vertice della Federazione delle Cooperative a Diego Schelfi, imprenditore cooperativo (e non), presente in millanta consigli di amministrazione, amicissimo di Dellai.
Su questo cambio della guardia molto si è detto. A noi interessa inserirlo all’interno di un discorso più complessivo su cosa è oggi e dove sta andando il movimento cooperativo.
Che in Trentino è un colosso: 140.000 soci (o 100.000 se si conteggia una volta sola chi è associato a più coop) 600 società, un fatturato di oltre due miliardi di euro, e una posizione maggioritaria, quando non egemone, in alcuni settori economici fondamentali, come l’agricoltura, il credito, il consumo.
Tutto questo attraverso un’architettura sociale complessa ("barocca" fu definita a un convegno) che schematizziamo in uno schema grafico: i singoli cooperatori danno vita alla loro cooperativa (la Cassa Rurale, la Famiglia Cooperativa, la Cantina sociale); queste a loro volta, per rafforzarsi, cooperando appunto, si associano a loro volta, dando vita ad altre cooperative – di secondo grado - ossia i consorzi, che centralizzano i servizi (la Cavit commercializza il vino delle cantine, il Sait centralizza gli acquisti delle Famiglie, la Cassa Centrale fornisce servizi finanziari alle Casse Rurali…) ; infine sia i consorzi che le coop di primo grado confluiscono nella Federazione, che fornisce servizi amministrativi, esercita attività di revisione e controllo, e - cosa più delicata - funge da rappresentante politico e sindacale.
Visto tutto questo, sorge la domanda: perché le cooperative? Come mai si è sviluppata questa forma particolare di società? Come è cambiata dall’800 al duemila? Che ruolo, che futuro può avere oggi?
La cooperativa infatti - è bene ricordarlo - è un’impresa. Ma con finalità sociali iscritte nel Dna: una coop non può dare utili (l’eventuale utile va destinato a riserva indivisibile, non è a disposizione dei soci, "in pratica si mette a disposizione della comunità tutto il patrimonio accumulato" - afferma il prof. Carlo Borzaga, preside di Economia all’università di Trento e studioso delle imprese no-profit); è democratica, in quanto governata dalla assemblea dei soci, nella quale vige il principio "una testa, un voto"; deve (o dovrebbe) istituzionalmente perseguire finalità sociali, come assistere gli handicappati, o fornire sbocchi commerciali ai prodotti dei contadini, o permettere un credito più agevole, o dare la casa a chi non la ha, o… pubblicare un giornale come QT (edito infatti da una cooperativa).
Insomma, in una cooperativa convivono due facce, due polarità: impresa/democrazia, interesse economico/senso di appartenenza a una comunità, e quindi managerialità/rappresentanza sociale.
Nel corso degli anni la prevalenza di una delle due facce, l’impresa o la finalità sociale, ha caratterizzato l’evoluzione del sistema. Perché è chiaro: da una parte una coop deve essere impresa, perché se non chiude i conti in pareggio, fallisce; dall’altra deve mantenere finalità sociali, altrimenti è inutile che rimanga cooperativa, è meglio si trasformi in una spa.
E’ stato un vero sommovimento di carattere popolare la grande esplosione delle coop nella seconda metà dell’800 - ci dice Fabio Giacomoni, docente a Sociologia, storico del movimento cooperativo, già consigliere d’amministrazione del Sait e a tutt’oggi presidente della Famiglia Cooperativa di Gardolo - Fu un grande cambiamento per il Trentino, guidato dai preti e ispirato ai principi solidaristici della dottrina sociale cattolica".
Dopo il periodo di letargo del fascismo, con gli anni ’50 il movimento si laicizza: non più guidato da preti, ma dagli esponenti del partito cattolico. Diventa la DC il collante, è il partito a fornire la prospettiva: in un paese, a tenere insieme la Cassa rurale, la Famiglia cooperativa, il caseificio, in un orizzonte comune, in un’ottica di comunità, ci pensa la politica. Magari con il suo personale di seconda mano (chi non diventa assessore va alla Cassa rurale), senz’altro intrecciando politica e clientela; fornendo comunque al movimento non solo una copertura in sede istituzionale, ma anche una direzione di marcia. E così politici democristiani sono tutti i presidenti della Federazione, appunto fino a Schelfi; fenomeno che si trascina fino ad oggi: vengono ancora dalla DC tutti i presidenti dei consorzi: Ghirardini per Melinda, Senesi per la Cassa Centrale, Fiorini per il Sait, Sartori (anche se ora guarda a Forza Italia) per Cavit.
In realtà con il ’93 cambia tutto: la DC non c’è più e il movimento rimane orfano, proprio quando il vento liberista vede con insofferenza questa forma anomala di impresa.
"Allora si fece di necessità, virtù: venuta a mancare la prospettiva e l’appoggio politico, con l’acqua alla gola le cooperative puntarono sull’imprenditorialità - spiega Giuliano Beltrami, già presidente del Consolida e consigliere d’amministrazione della Federazione, oltre che nostro apprezzato collaboratore - Così il Sait con i conti in rosso profondo strinse un’alleanza strategica con le Coop rosse, rompendo antichi steccati ideologici; le Casse Rurali iniziarono i non facili processi di fusione; Cavit si ristrutturò radicalmente… Ma più in generale ogni cooperativa scoprì di dover essere più imprenditoriale, più innovativa: di qui l’attenzione a concetti come managerialità, economia di scala, massa critica, per niente scontati in imprese magari piccole, che traevano dal radicamento in un paese la loro ragione d’essere".
"E’ stata una reazione molto positiva: se prima si pensava che c’era la mamma che ti risolve i problemi, poi si è visto che i problemi te li devi risolvere da solo, e ti attrezzi per farlo - afferma Giorgio Fiorini, presidente del Sait, che rivendica con orgoglio: "Nel bilancio Sait di quest’anno non c’è un euro, dico uno, di contributi pubblici; i nostri risultati positivi sono dovuti alla managerialità, non a sovvenzioni".
Su questo tiene a precisare anche il prof. Borzaga: "I contributi alla cooperazione sono una favola, propagata dai privati che non riescono ad essere competitivi. L’unica differenza è che alle coop non vengono tassati gli utili: e giustamente, perché rimangono a disposizione della comunità. Vorrei vedere quale privato sarebbe disposto a rinunciare agli utili, in cambio di una loro detassazione!"
Ed in ogni caso, quando si parla di utili, si è già a valle della competizione: che vengano accantonati, spesi in donne e champagne, o in opere pie, oppure in orridi arredi urbani, è indifferente rispetto alla competitività dell’azienda.
"La cooperazione storicamente interviene quando il mercato non funziona, l’impresa privata non soddisfa le esigenze: quando il credito non viene erogato in maniera soddisfacente, quando l’agricoltore viene strozzato dai grossisti, quando il consumatore non si trova di fronte ad una vera concorrenza - afferma Borzaga - In molti paesi europei la cooperazione al consumo ha chiuso quando si è sviluppata una reale concorrenza; ed ha poi ripreso in una nuova ottica, quella, per l’appunto, del consumatore: garantendo certe caratteristiche di qualità, naturalità, ecc. Un buon capitalismo ha una pluralità di istituzioni: se alcune non funzionano, intervengono le altre. E oggi, in molti ambiti, è la cooperazione ad offrire le risposte più adeguate".
Ora però il movimento si trova di fronte ad altri problemi.
La polarità impresa/finalità sociale, insita in ogni coop, si è decisamente spostata sul primo termine: l’imprenditorialità, il tornaconto: "Pur con la grossa e significativa eccezione delle cooperative sociali, oggi il giovane si avvicina alla cooperazione per un interesse immediato, non per senso di appartenenza ad una comunità: per farsi la casa, avere il mutuo, per le offerte ai consumatori. La coop era una forma della comunità, oggi non più" - afferma Beltrami.
Intendiamoci, la finalità sociale, l’aderenza al territorio rimane uno dei punti costitutivi, fondanti: "Noi siamo una rete - afferma Fiorini - In 160 località siamo l’unico punto vendita, teniamo vivi paesini e frazioni. E questo è possibile perché facciamo sistema, così da tener aperti anche i punti che singolarmente non possono fare business. Quest’anno il Sait ha distribuito 2,5 milioni di euro di ristorni ai soci, che poi sono le famiglie cooperative; ed è con quei soldi, oltre che con il nostro supporto tecnico-logistico, che le piccole cooperative riescono a chiudere il bilancio".
"Anche oggi l’appartenenza si può creare attorno agli interessi economico-sociali: i ristorni, gli sconti, le agevolazioni; ma anche i prestiti a tasso zero agli studenti, che verranno restituiti con l’inizio dell’attività lavorativa - aggiunge Beltrami - La mia Cassa Rurale, a un cliente (neanche socio) tunisino che aveva perso il portafoglio in viaggio verso la madrepatria, ha subito prestato mille euro ritirabili su una banca di Roma: questo vuol dire fiducia, conoscenza delle persone, rapporti comunitari e umani, tutte cose impensabili per qualsiasi istituto di credito privato".
E’ questa la famosa "aderenza al territorio", risorsa delle Casse Rurali, che concedono crediti con più facilità, su progetti invece che su garanzie ipotecarie, perché conoscono chi hanno di fronte. "Questo è tanto vero che uno studio di alcuni anni fa della Banca d’Italia ha rilevato come dove c’è un tessuto più folto di Casse Rurali e Banche Popolari, lì c’è più sviluppo. Perché sono abbattuti i costi di informazione, e si possono finanziare i progetti" - prosegue Borzaga.
Tutto vero. Rimane il fatto che la prevalenza dell’aspetto manageriale su quello sociale non è indolore. "Ci sono alcuni casi eclatanti dove il manager fa tutto lui, e il socio non conta nulla. E casi più diffusi, striscianti, dove la subalternità agli amministratori si manifesta nella scarsa partecipazione, ridotta spesso al 25-30%, alle assemblee non elettive".
La diffusione e pericolosità di questa deriva era, formalmente, presente al presidente uscente Pierluigi Angeli, che aveva indetto una serie di costosi convegni sulla "Centralità del socio": la cooperazione rischia di perdere l’anima, c’è il rischio mortale di omologazione alle altre forme d’impresa, bisogna lavorare per ridurre lo spazio ai manager, ormai debordanti… "Chiacchierate, chiacchierate voi…" - diceva ironico a uno dei giovani dell’Ufficio studi, nei corridoi ai margini di uno di questi convegni, uno dei boss più potenti del movimento. Aveva ragione: pagati i consulenti, Angeli ne mise le relazioni in un cassetto e andò avanti come prima (vedi Le coop nel 2000. Se don Guetti...).
"Non si capisce più quale è la mission del movimento - afferma il prof. Giacomoni - Che differenza c’è tra un ipermercato della Coop e uno di Berlusconi? I soci? Sono solo clienti: non hanno alcuna possibilità di influire sulle decisioni dei manager. E’ vero, la loro finalità non è l’utile: è l’espansione, la politica di potenza. Essere primi in Italia, espandersi all’estero, essere i primi in Croazia, confrontarsi con le multinazionali francesi. E così il Sait, cui stanno guardando con interesse le coop lombarde e sudtirolesi; e Melinda; e il caseario; per non parlare del settore vinicolo. Sono cose anche positive. Ma, e lo dico senza avere risposte, bisogna capire cosa c’entrano con la cooperazione".
A questa dinamica sono estranee le cooperative sociali (che peraltro pongono altri interrogativi "Sono sempre più dipendenti dall’ente pubblico, che tende a delegare loro proprie funzioni" - riflette Giacomoni). Il che apre un altro problema: che ci stanno a fare assieme queste imprese così diverse? Cosa può legare un Superstore, una Cassa Rurale di Fiemme e una cooperativa culturale della val di Non?
Svanita l’ideologia, sepolta la DC, appannata l’appartenenza, cosa può tenere assieme tutte queste realtà così diverse? "Quando al Consiglio di amministrazione della Federazione si discute di uno specifico settore, fra tutti i non addetti c’è il disinteresse" - rivela Beltrami.
Equi arriviamo al punto: la Federazione; e il suo nuovo presidente, Diego Schelfi. Il quale, non sappiamo se piccato per un nostro lontano articolo in cui ironizzavamo sulle sue troppe cariche, non ci ha concesso un’intervista (come del resto il suo predecessore, dopo che avevamo iniziato a chiedere dove stava andando la conclamata politica pro-socio, vedi Per chi suona la campana).
Ora Schelfi si è presentato in maniera assolutamente anonima: "Il mio programma? Lo faremo assieme" - il suo refrain da re travicello. Acclamare una persona alla presidenza sul nulla programmatico non sembrerebbe il massimo della salute democratica. Nessuno crede che sia così a corto di idee, e quello che si è votato non è un programma ma una biografia, la quale indica in effetti una rottura: Schelfi non viene dalla politica (anche se è amico e sodale di Dellai), bensì dall’imprenditoria cooperativa. Con lui quindi il primato dell’impresa viene istituzionalizzato.
Anche se, secondo Giacomoni, "val la pena sottolineare un altro dato: la cooperativa di Schelfi, la Delta, non è più tale, è diventata una Spa. E con la presidenza della Federazione ha lasciato la Delta, da lui creata, ma non il Cda dell’Isa, la finanziaria della Curia, sostenendo che non vi sono conflitti d’interesse.".
Da Schelfi imprenditore ci si aspetta molto: "C’è attesa, - conferma Beltrami - ci si aspettano cambiamenti a breve termine, soprattutto di uomini. E si interpreta il suo vuoto programmatico come il desiderio di non turbare le acque anzitempo".
Innanzitutto un adeguamento della Federazione all’impianto più imprenditoriale del movimento; poi rapporti più ‘alla pari’ con il resto del mondo delle imprese: "Le cooperative si sentono imprese, e come tali vogliono essere percepite".
Poi si vorrebbe una rappresentanza politico-sindacale più uniforme: con Angeli alcuni settori, come le Casse Rurali, erano seguiti e tutelati, anche troppo (vedi la Pat di Dellai che entra nel capitale della Cassa Centrale); altri invece lasciati a se stessi. E forse non sarebbe male che si ripulissero le zone bigie, che l’azione di controllo della Federazione non fosse, su alcuni settori, aleatoria, come su quello delle cooperative-casa, che hanno combinato frequenti disastri e sempre hanno trovato protezione (come da nostre inchieste).
A noi comunque sembra un programma minimale. Per la gestione dei cambiamenti già avvenuti.
"Ci vorrebbe una diversa governance nelle cooperative: più democrazia, meno gruppi di potere, con amministratori che oggi durano vent’anni. E soprattutto ci vorrebbe più cultura cooperativa - afferma Borzaga - Quando una Cassa Rurale presenta il bilancio piangendo sulla diminuzione degli utili, vuol dire che non ci siamo. Si dovrebbe invece dire: ‘Dal momento che abbiamo fatto tutto questo, promosso questa e quest’altra politica, c’è stato un conseguente e atteso crollo degli utili’. Invece molto spesso i parametri di riferimento sono quelli di un’impresa lucrativa. Una coop invece deve essere un’altra cosa...".