Imprese sociali: al posto della famiglia
Le organizzazioni non-profit: imprese a tutti gli effetti, ma che agiscono per il bene sociale. Cosa è: Babbo Natale, il mondo delle favole? No, in Italia sono 200.000 e in futuro...
Cosa diavolo sono queste imprese che si mettono a gestire asili-nido? O a fornire assistenza agli anziani? O - ed è il nostro caso, di noi di QT - a fare un giornale fuori dal coro?
Tutte iniziative con tanto di bilancio, capitale di rischio, capacità di essere concorrenti sul mercato. Eppure che operano - accidenti! - per scopi diversi dal profitto: in genere - inaudito- per beneficiare settori della comunità.
Come possono reggersi? E non è che poi perdano per strada tutti i bei propositi? E che ruolo possono avere nella società attuale?
Su questi temi si è tenuto a Trento a metà dicembre, organizzato dall’Università e da ISSAN (Istituto Studi Aziende Nonprofit), un convegno internazionale, che sul tema ha posto a confronto studiosi - sociologi ed economisti - da tutta Europa e dagli Stati Uniti. Perché il tema è rilevante, anche quantitativamente: in Italia, secondo l’Istat, operano 221.412 organizzazioni non-profit, che organizzano 3 milioni 200.000 volontari e 650.000 lavoratori retribuiti.
Si tratta delle organizzazioni - dicono gli studiosi - del "terzo settore" o settore "non-profit": quelle che operano per scopi diversi dal profitto (che ci può anche essere, ma non può essere distribuito ai proprietari): tra le 220.000 associazioni ci sono le fondazioni (bancarie e non), cooperative sociali (quelle che, a differenza delle altre coop, non hanno come fine la mutualità tra i soci, bensì il beneficio di parti della comunità (gli handicappati, per esempio) in genere attraverso l’integrazione sociale) ed altri enti, tra cui quelli religiosi.
"Di queste organizzazioni – ci dice Carlo Borzaga, docente alla Facoltà di Economia di Trento, presidente di Issan e promotore del convegno - alcune possono svolgere attività di promozione e tutela (di diritti, di interessi, tipo disabili, consumatori), alcune fanno azione redistributiva (come le Fondazioni bancarie), altre invece producono servizi: sono queste ultime le imprese sociali - imprese in quanto hanno un’attività produttiva - su cui abbiamo focalizzato il convegno".
Se non sbaglio, voi sottolineate l’innovatività di queste imprese.
"Tradizionalmente, nei nostri modelli di welfare, si riteneva che la produzione di servizi sociali fosse compito della famiglia o dello Stato oppure, come in Germania, di grandi associazioni dipendenti dalle chiese o dai sindacati (tipo la Caritas tedesca), che però non hanno natura di impresa, bensì svolgono l’attività di erogazione di servizi senza assumere rischi e avere reale autonomia rispetto alla pubblica amministrazione".
Invece nelle imprese sociali?
"Lì ci sono privati cittadini che decidono di avviare il servizio, vi investono capitale e lavoro, e poi si pongono in un rapporto contrattuale con la Pubblica amministrazione, o direttamente con i consumatori. C’è chi impianta un asilo nido, oppure servizi per l’handicap, o una casa-famiglia per minori in difficoltà; oppure chi realizza un’attività lavorativa (tipo pulizie, giardinaggio, ecc) volta all’inserimento di lavoratori svantaggiati. Per esempio, a Trento la cooperativa Le Coste attualmente occupa un centinaio di lavoratori remunerati, di cui la metà circa sono svantaggiati (carcerati in libertà vigilata, ex-tossicodipendenti, persone con problemi psichici) e opera nel settore del verde sia pubblico che privato, pulizie, lavanderie".
Ma come funziona? Come riesce ad essere competitiva?
"Sia attraverso i contributi pubblici, peraltro limitati, tra cui l’esonero dal pagamento degli oneri sociali per i lavoratori svantaggiati; sia distribuendo una parte del prodotto realizzato dal lavoratore normodotato a favore di quello svantaggiato; sia attraverso salari rapportati - all’inizio del rapporto di lavoro - alla produttività reale: in questa maniera un’impresa sociale ben organizzata riesce a realizzare il pareggio di bilancio, e magari qualcosa di più. L’obiettivo finale è quello di inserire i lavoratori, non più svantaggiati, nel normale mercato del lavoro".
Quante sono queste imprese?
"In Italia la forma più diffusa, è quella della cooperativa sociale. Ce ne sono circa 6.000 (il 59% a prevalente finanziamento pubblico) e occupano, secondo l’Istat, 130.000 addetti retribuiti e circa 20.000 volontari".
E’ un fenomeno in evoluzione?
"Le organizzazioni non-profit censite sono nate, nel 75% dei casi, negli ultimi venti anni; e le cooperative sociali sono tutte nate negli ultimi venti anni, prima non esistevano proprio. E’ quindi un fenomeno assolutamente recente, perché prima, almeno in Italia e anche in Europa, c’era molto meno richiesta di questo tipo di servizi".
Come mai? Perché ci pensava la famiglia? Perché di certi servizi si faceva a meno, e il figlio handicappato per vergogna lo si teneva chiuso in casa, e l’Alzheimer lo si considerava naturale declino dei vecchi?
"Entrambe le dinamiche; alcuni decenni fa suppliva la famiglia tradizionale, più allargata della attuale, e per i servizi di emergenza, come le case di riposo, operavano enti religiosi o pubblici. Ma oggi è soprattutto emersa una nuova domanda di servizi. Anzitutto perché siamo diventati più ricchi, sono aumentati i diritti e i bisogni riconosciuti: ad esempio, il disabile oggi non si nasconde più e gli si riconoscono dignità e diritti, tra cui quello di lavorare. E poi la famiglia ha ridotto la sua produzione di servizi: è più piccola, e le donne lavorano.
E la domanda continuerà a crescere e sarà sempre più specializzata: la società invecchia, gli handicappati hanno speranze di vita molto più lunghe, la domanda - vedi Alzheimer - cresce in quanto non vengono occultati i disagi. Oggi abbiamo posti in asilo nido pari al 7% del numero di bambini in età sei mesi-tre anni: le potenzialità della domanda sono elevatissime".
Sono sorti problemi e polemiche sulle retribuzioni dei lavoratori di queste imprese…
"Noi abbiamo un sistema retributivo generalizzato, fondato sul modello dell’industria manifatturiera, la quale recupera gli aumenti salariali con l’aumento della produttività. Questo non è semplicemente possibile nel settore dei servizi alla persona, dove ogni aumento salariale diventa un aumento di costo che scoraggia la domanda. Per questo occorrerebbe avere sistemi salariali diversi tra industria e servizi alla persona (di interesse collettivo) attraverso una riduzione degli oneri sociali a carico delle imprese e dei lavoratori, compensati da contributi pubblici ad hoc; altrimenti si ha l’esplosione del lavoro nero, e il nonno lo faccio accudire dalla colf polacca, naturalmente clandestina".
Uno degli elementi fondamentali del successo di queste imprese è la finalità, il fatto che i lavoratori condividano lo spirito di solidarietà cui è finalizzata l’impresa. Questo è un punto basilare, che permette all’impresa sociale di avere una forza lavoro molto motivata e quindi efficiente. Però, come nel convegno ha analizzato Lorenzo Sacconi, anch’egli dell’Università di Trento, la realtà non è così idilliaca. Un’impresa sociale, magari proprio quando ha successo, e riesce ad accumulare surplus, può deragliare, e destinare i surplus non a beneficio dei servizi resi agli utenti, ma in benefit per i proprietari (uffici, macchine lussuose, spese di rappresentanza, rimborsi vari) o aumenti salariali per i lavoratori. Ma così operando allenta la propria coesione, perde la motivazione di fondo che è il suo vero propulsore.
"Si è visto che esistono - commenta Borzaga - organizzazioni economicamente ben impostate, imprese a tutti gli effetti; ma che riescono a mescolare reddito, efficienza, e il perseguimento di istanze etiche. Chiaramente però sono organizzazioni fragili; è un equilibrio difficile da realizzare, ma soprattutto difficile da mantenere nel tempo, e proprio in caso di successo.
Questa è la scommessa con cui si misurano gran parte di queste organizzazioni".
Questi sono problemi che vediamo riproposti nella cooperazione (vedi Continuità o impotenza?). Le imprese sociali rappresentano una qualche evoluzione del mondo cooperativo?
"Proprio al convegno sono state ribadite alcuni motivi di attualità della cooperazione più classica: in particolare il ruolo delle banche di credito cooperativo e in genere della microfinanza, che riesce a venire incontro a una domanda di credito di piccole dimensioni, i duecento milioni, che le banche tradizionali, e ancor più i grandi gruppi, non hanno interesse a soddisfare, perché costano troppo e rendono troppo poco (abbassa il Roe, il tasso di profitto, e ne fa calare il valore delle azioni in borsa).
All’interno delle cooperative ci sono poi quelle sociali, che appunto si prefiggono anche obiettivi di carattere sociale, non solo mutualistico, dove il sociale va declinato a seconda dei bisogni in evoluzione nella società".
Un relatore (Adalbert Evers, dell’Università Justus Liebig) ha paventato il pericolo dell’euroliberismo, che postula l’assoluta predominanza del mercato. Per cui le imprese sociali sono residuali, destinate ad occupare solo gli spazi marginali, dove lo Stato non riesce ad intervenire, e il mercato non si è ancora organizzato.
"E’ vero, in Europa esiste un’ideologia secondo la quale tutti i problemi si potrebbero risolvere ampliando i mercati: il che non è vero: il mercato, la pura logica del profitto, in tutta una serie di situazioni è fallimentare, è incapace di servire in maniera adeguata il cliente e di praticare prezzi abbordabili".
Un esempio: la sanità americana?
"Certo. Ma anche da noi, basta pensare che le amministrazioni pubbliche oggi sono costrette dalla normativa europea ad affidare la produzione di servizi sociali attraverso gare in cui l’unica variabile rilevante è il prezzo, e non la qualità o la natura solidaristica dell’organizzazione. Non c’è bisogno di più mercato, ma di un maggior pluralismo di istituzioni, all’interno delle quali le imprese sociali sono una delle forme più innovative.
Ma l’ideologia liberista, anche se oggi è prevalente, sarà transitoria. E’ facile prevederne il declino nel campo dei servizi sociali, un declino provocato dall’insoddisfazione dei cittadini-utenti".