Anziani invisibili
Viaggio nelle case di riposo, fra residenze spesso dorate e operatori svalutati o ridotti all’osso.
Corpi avvizziti e chini giacciono lungo corridoi spogli. Sono tutti in fila indiana. Gli occhi languidi scrutano il pavimento. Tutto è lindo e l’odore forte del disinfettante copre quello nauseabondo delle urine e degli escrementi. Il personale s’affaccenda nel cambio delle lenzuola. Poi tutti dritti a letto, nell’attesa che qualcuno scandisca il ritmo lento della giornata. Questa è l’immagine scolpita nella mente, quando il pensiero corre alle case di riposo di un tempo, in verità non tanto remoto. Lì bastava dare un’occhiata ai vecchietti e tenerli puliti, magari ogni tanto richiamarli all’ordine.
Oggi, invece, è tutta un’altra storia. L’età del crepuscolo non è più da "rottamare". Sono fioccati gli investimenti sociali. Basta con i nonni messi all’angolo: bisogna rilanciare la loro vita! Non a caso, lo slogan strombazzato dalla moderna cultura dei servizi è "Centralità della persona". Così le case di riposo sono diventate aziende che fanno bella mostra di sé e dei loro servizi. Spuntano qua e là residenze dorate: marmi lucenti e fontane zampillanti incantano il visitatore. Non mancano attrezzature all’avanguardia ed arredi personalizzati. Perché ciò che conta è che il nonno diventi protagonista e si senta sempre come a casa sua.
Qui vogliamo puntare i riflettori su un aspetto che rimane, per lo più, in ombra: le condizioni di lavoro del personale che opera nelle case di riposo e i riflessi sulla qualità dei servizi.
In Trentino sono 1.831 gli addetti alla professione di "cura". Sgobbano parecchio, si fanno carico dei compiti più umili, ma godono di poco riconoscimento sociale ed economico. Per squarciare il velo di silenzio, che cala su questa schiera degli "ultimi", abbiamo incontrato un gruppo di operatori socio-sanitari (OSS) che lavorano in case di riposo dislocate in città e in valle.
Prende subito la parola Andrea, un ragazzo slanciato ed avvenente. Gli amici gli dicono che potrebbe fare il modello, ma lui dell’immagine se ne frega. Anni fa si è stufato d’infilare mattoni e ha deciso di buttarsi in un lavoro con qualità umane: "Tra le case di riposo c’è qualche piccola isola felice. Qui trovi operatori motivati che discutono dei problemi con colleghi e superiori. Naturalmente c’è anche più attenzione all’ospite. Il benessere degli anziani è molto legato a quello di chi li assiste. Nelle grandi residenze gli utenti e gli operatori diventano spesso numeri. In una casa di riposo, in città, io e i miei colleghi, eravamo macchine: i nonni, la mattina, li buttavamo fuori dal letto di corsa, per la fretta. Alzavamo a braccio persone di 80 chili perché non avevamo tempo per utilizzare gli ausili, previsti dalla legge sulla sicurezza e salute del lavoratore" (legge n°626/94, n.d.r).
Solleva il coperchio sulla qualità dei servizi anche Anna. E’ una ragazza tutta pepe, con capelli corvini ed un ciuffo un po’ ribelle. La vita di cameriera non faceva per lei: voleva un posto sicuro e qualche quattrino per metter su famiglia. A scuola l’hanno infarcita di nozioni per curare l’anziano. Sa come alzarlo dal letto, lavarlo, vestirlo e imboccarlo. Sa come parlare con lui per farlo stare bene. Ma da quando ha toccato con mano la realtà è sprofondata nello sconforto: "In molte strutture le risorse sono ridotte all’osso.
Anna è schietta, s’infiamma e non usa tanti giri di parole quando mette in risalto le crepe di un lavoro con poche risorse: "In una casa di riposo, quando fui assunta, mi consegnarono le chiavi ed una calamita per togliere le cinture di contenzione. Con quelle, nel letto, mica ti giri. Su 32 ospiti, del mio reparto, 12 la indossavano ogni volta che erano coricati durante il giorno o la notte. Naturalmente erano tutte prescritte dal medico, perché l’operatore non poteva applicarle senza il suo consenso. Quando non c’è tempo per badare agli ospiti, è facile abusare di questi sistemi, anche per scaricare le responsabilità. Magari gli operatori riferivano al medico che un anziano, affetto da demenza, era stato trovato con una gamba fuori dal letto durante la notte, così, qualche giorno dopo, tac, la cintura. Ricordo che ad un ospite terminale gliela tirarono via solo il giorno prima della morte. Nemmeno al reparto psichiatrico ho visto queste cose. Per fortuna, in altre residenze, in cui ho lavorato, questi ausili si usano molto meno".
Non c’è tempo...
Balza nella discussione Silvia, una signora dal viso vispo e paffuto, che nelle case di riposo ci sta da una vita, prima come inserviente, poi, con la riqualificazione, come operatrice socio-sanitaria: "A scuola ti martellano due anni con le tecniche comunicative. In realtà la relazione in casa di riposo è spesso un optional. Qualche nonno implora la tua compagnia e tu corri via veloce. Il vecchio è catapultato qui con tutto il suo vissuto, ma non c’è tempo per ricucire la sua storia. L’aspetto sanitario e d’assistenza viene prima di tutto. Per non parlare del fatto che molti anziani s’arrangerebbero in piccole cose, magari a lavarsi un po’. Spesso, però, non c’è tempo per seguirli e allora fai tutto tu".
Pure Marco ha qualcosa da dire. E’ un omaccione timido e di poche parole. Ha le spalle larghe, ma regge sempre meno le fatiche del suo lavoro. Gli pesano i carichi fisici e psicologici. Quando lavori con i malanni degli altri, può capitare che ti bruci: "Ad un certo punto devi staccare la spina e allora vai in malattia. Perché sei sfinito e demotivato. Se lavori da anni con i malati d’Alzheimer, ti vengono gli incubi. Anche se ti rivolgi ad uno psicologo, presente in struttura, non ti risolve certo il problema dei carichi".
Invece Laura, una signora quarantenne, in casa di riposo si sente realizzata: da quando l’hanno promossa al ruolo di animatrice lei pensa solo a far divertire i nonni. Dal suo tono concitato si capisce che ha tanta voglia di fare. Ma ci tiene subito a precisare: "Mi ritengo fortunata, perché dove lavoro c’è anche un’educatrice. In molte strutture non trovi la doppia figura. Con lei gestisco l’attività di cento ospiti. E’ chiaro che possiamo coinvolgere solo piccoli gruppi, magari i più autonomi, o fare qualche piano di lavoro individualizzato. Insomma, i tempi di relazione sono davvero stringati".
Al termine di questa conversazione qualche pensiero ci frulla in testa: forse al nonno di vivere in un hotel a quattro stelle non interessa granché, forse non gli importa di essere ogni giorno sbarbato e controllato su quanto beve e quante volte fa pipì, forse gli basterebbe soltanto scambiare qualche parola in più per sentirsi meno solo.
In certe case di riposo alzi e prepari gli ospiti come in una catena di montaggio: fuori uno, dentro l’altro. In una residenza facevamo alzare 32 utenti, non autosufficienti, in due operatori: si lavorava privilegiando i compiti, non gli obiettivi. Spesso trovi tempi e piani di lavoro rigidi da rispettare. Capita così che se vuoi soddisfare un semplice bisogno dell’anziano, ad esempio alzarsi un’ora più tardi, non puoi farlo. Altro che ospite protagonista, che decide della propria vita! Naturalmente non voglio fare di tutta l’erba un fascio, perché c’è qualche amministrazione attenta che non ti mette davanti un orologio".
Il sociologo: "Troppo simili a ospedali"
"Sono piacevolmente sorpreso di questa intervista. I vecchi, negli ospizi, fanno notizia solo quando succede qualche fatto di cronaca grave."
A parlare è un "sociologo della vecchiaia", così si definisce Antonio Censi, che ha diretto per 25 anni una casa di riposo a Bergamo. Ricercatore e saggista, è autore del libro La vita possibile, edito da Franco Angeli, sul tema del lavoro sociale nelle residenze per anziani.
Professore, si finanziano strutture lussuose, ma languono le risorse umane per soddisfare i bisogni degli utenti. Qual è la sua opinione?
Si è lavorato molto per svecchiare l’immagine dell’ospizio tradizionale. C’è stato un netto miglioramento delle prestazioni mediche e riabilitative. Le strutture hanno cambiato volto, ma seguono il modello ospedaliero. Così il tempo delle cure assorbe il tempo della vita. Succede che la persona è vista in funzione dei servizi che consuma, non come soggetto con la sua storia. Ad esempio, quando un utente entra in residenza, si raccolgono notizie dettagliate sui bisogni sanitari, ma scarseggiano quelle sulla sua vita personale. L’invecchiamento non è solo un processo di deterioramento fisico, c’è anche uno sgretolamento dell’identità dell’anziano, legato alla difficoltà di gestire autonomamente la sua vita. Quando le risorse sono inadeguate, la comunicazione con l’ospite è centrata solo sui compiti assistenziali. Gli operatori si trovano costretti a trattare gli utenti come corpi impotenti da sottoporre ad una serie d’operazioni: alzarli, lavarli ecc...
Le residenze dovrebbero essere piccole comunità, ‘luoghi di vita’ in cui la persona può esercitare le sue capacità, in un contesto simile alla propria casa. Altrimenti diventano depositi ove ci si prende cura dei corpi nel lasso di tempo fra la morte sociale, che avviene al momento del ricovero, e la morte fisica.
Cosa si nasconde dietro la svalutazione degli operatori addetti al lavoro di cura?
Nella nostra società l’anziano sano e pimpante gode di una buona immagine sociale. Il vecchio non autosufficiente evoca invece la dipendenza, la sofferenza e la morte. Tutte esperienze spiacevoli che abbiamo difficoltà a gestire, perché non siamo culturalmente attrezzati. Chi lavora con la cronicità resta ai margini, perchè vive di riflesso l’esclusione sociale dell’anziano.