Il quinto gusto
La mamma per colazione ci preparava una scodella di caffelatte con il pane raffermo e, per farci arrivare a scuola per tempo, lo spezzettava un bel po’ prima. Quando mi sedevo a mangiare era ormai diventato una poltiglia. Improvvisamente e da un giorno all’altro, avrò avuto una decina di anni, tutto quel pan bagnato mi fece venire il voltastomaco. Una vera e propria ripugnanza. Smisi di far colazione per evitarlo, visto che non c’era scelta. Così come evitai da allora e per sempre, la trentinissima panada, gli gnocchi di pane, i crostini nella minestra, la scarpetta con il sugo. Se non è zuppa è pan bagnato si dice ma, per fortuna, esiste una via di fuga.
Prima di allora non mi soffermavo sui sapori, per coniare un neologismo ero "agustativa", infatti, le mie risposte erano disorientanti: "C’è abbastanza sale nella minestra?" chiedeva la mamma? "Boh!" rispondevo. "E’ zuccherato il latte?" "Non so!" La cosa seria era che non lo capivo davvero. Il gusto era un concetto astratto che in me non si era ancora sviluppato e sicuramente non era regolato da quello che mangiavo. Avevo sempre appetito allora e divoravo tutto con avidità. Mangiare era qualcosa da fare in fretta a casa mia. Solo papà mangiava molto lentamente. Era una reazione alla prigionia a Mauthausen.
Temevo la fame - i miei genitori ne parlavano sempre – ma avevo molta paura di svegliarmi un giorno in un pentolone con i cannibali che mi cuocevano per pranzo. Una prozia mi aveva abbonato al Piccolo Missionario. Era uno dei miei pochi strumenti didattici di allora. Capivo l’ingiustizia della fame nel mondo e mi sentivo in colpa. Io avevo i languori davanti alla mia cuginetta che passava da un lato all’altro i bocconi della bistecca che sua madre le aveva fatto ingoiare con l’inganno a pranzo. O che teneva in mano una banana sbucciata per un’ora e magari lasciava cadere la fetta di pane e nutella. Alimenti superflui e da ricchi che in casa non ci permettevamo e i quali, ovviamente, mi facevano molto gola.
"Certo - pensavo - quando farò la spesa io, non mi mancherà niente di quello che non ho avuto da bambina." Pensieri ingenui, smentiti in fretta. Eh sì, perché essendo "agustativa", non mi entusiasmavo per nessun cibo e le voglie alimentari passarono velocemente. Non vennero nemmeno durante le gravidanze. Il piacere della tavola non mi coinvolgeva - mi sentivo insipida come una rapa - anche se imparai a cucinare discretamente per la mia famiglia.
Si invecchia sentendosi diversi, a disagio, perché circondati da persone che gustano i cibi, si deliziano a mangiarli e passano molte ore a tavola. Io mi sarei nutrita di altro perché la mia era fame di cultura, ma mangiare è vitale. La differenza tra piacere e dovere!
Una svolta miracolosa quando, una dozzina di anni fa, per problemi di salute, mi sono avvicinata ed entusiasmata per l’alimentazione naturista, integrale e biologica, cambiando radicalmente cibo. Non è stato facile: provate a mettere in cucina come assaggiatrice la rapa di prima!
Ho poi scoperto sapori inediti gustando con calma quello che avevo cucinato, dapprima con algida precisione, per poi appassionarmi stupita. Ritrovando addirittura un po’ d’infanzia nel quinto gusto, l’umami… molto giapponese all’apparenza perché tipico del sushi, ma presente anche nel latte materno.
Se il piacere del palato è paragonato a quello dei sensi, in ambedue i casi dovrei ricevere molti arretrati!