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QT n. 7, luglio 2021 Servizi

‘Ndrangheta a Bolzano, ossia la banalità del crimine

L’Operazione Freeland conferma le infiltrazioni criminali in regione. Con obiettivi e caratteristiche differenziate tra Trento e Bolzano

Sono trenta gli imputati finiti davanti al GIP in seguito all’Operazione Freeland. I reati sono connessi alla partecipazione a “una propaggine dell’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta” operante a Bolzano.

Con il che le tranquillizzanti assicurazioni per cui nella nostra regione non esiste la criminalità organizzata, a suo tempo sparse a piene mani anche da esponenti del Gruppo di Lavoro sulla Sicurezza in provincia, indicano solo la grave sottovalutazione con cui finora ci si è approcciati al fenomeno.

A dire il vero, già l’Operazione Perfido sulle infiltrazioni nel settore del porfido, aveva iniziato a presentarci un quadro molto allarmante. Freeland lo allarga al Sudtirolo, e in parte lo completa.

Le indagini ci descrivono un gruppo ‘ndranghetista basato a Bolzano - una “locale” nella terminologia ‘ndranghetista - facente riferimento al clan Italiano-Papalia di Delianuova in provincia di Reggio Calabria (mentre invece secondo l’accusa gli ‘ndranghetisti trentini sono emanazione del clan Serraino di Cardeto, piccolo paese a pochi chilometri da Reggio).

Diciamo subito che la locale di Bolzano risulta operare a un livello diverso da quella trentina. Quest’ultima infatti, attraverso il suo capo di fatto Giuseppe Battaglia si è direttamente inserita nel tessuto economico - e conseguentemente anche nella società - del distretto del porfido; agisce quindi nell’attività economica legale, anche se spesso perseguita, secondo l’accusa, con modalità criminali (utilizzo di capitali da riciclaggio, sfruttamento estremo dei lavoratori fino alla riduzione in schiavitù, sistematica elusione degli obblighi contributivi ed evasione fiscali, intimidazione dei concorrenti, pianificazione di fallimenti). La facciata però è rispettabile: si tratta di imprenditori. Che influenzano la società locale soprattutto attraverso la disponibilità economica e la capacità di orientare il voto: loro stessi si fanno eleggere nelle istituzioni a iniziare dai Comuni, o promuovono uomini a loro vicini. A Bolzano invece l’oggetto dell’attività imputata all’associazione è di per se stesso illegale: il traffico e lo spaccio degli stupefacenti. Secondo l’accusa tutta l’organizzazione è strutturata per svolgere al meglio tale lavoro, in collaborazione con la casa-madre calabrese.

Sempre secondo l’accusa a capo della locale c’è un calabrese di Delianova, Mario Sergi, che oltre a pianificare le attività bolzanine e gestire gli eventuali problemi interni al gruppo, si occupa dei rapporti con i boss calabresi per gli approvvigionamenti di cocaina e la cessione di armi, e ancora dei rapporti con la malavita sia locale che extraregionale. A fianco di Sergi viene individuato un altro calabrese, questa volta di Platì (sempre in provincia di Reggio) Francesco Perre, fondatore negli anni ‘90 del gruppo bolzanino alla cui guida ha fatto poi subentrare Sergi, mentre lui è tornato a Platì da dove, ricoprendo posizioni apicali nella ‘ndrina Barbaro-Papalia, concorda con Sergi le forniture di cocaina, come pure la strategia del gruppo e la pianificazione di singoli reati.

Gli altri indagati, tra cui il figlio di Perre e il fratello di Sergi, stando ai PM provvedono ai compiti più esecutivi, gestiscono la rete degli spacciatori, come pure effettuano minacce ed estorsioni, forti del possesso di armi e del deterrente di essere riconosciuti come parte dell’associazione mafiosa.

Il quadro descritto dall’accusa si completa con i periodici versamenti di denaro da parte di Sergi a Rocco Papalia, che a Delianova funge da contabile della ‘ndrina Italiano-Papalia, e in particolare gestisce la “bacinella”, il fondo per le spese legali e il sostentamento dei familiari degli affiliati incarcerati.

Tutto questo avviene attraverso accordi (ed eventuali scontri) più ampi. Per cui la divisione del mercato risulta coca ai calabresi, erba agli albanesi; il materiale viene fatto arrivare dal Belgio e dall’Olanda, frazionato, per minimizzare i rischi, in carichi del valore massimo di 50.000 euro; l’utilizzo di maghrebini per il trasporto. Insomma, un macchina organizzativa abbastanza complessa, che funziona sia grazie ai vincoli associativi e spesso familiari all’interno, sia perchè tutti ci guadagnano bene. Chiaramente, per chi deborda l’associazione ha pronte le minacce e\o la forza delle armi.

Un’associazione efficace quindi, forse proprio perchè ancora primordiale. Il lettore infatti farebbe bene a scordarsi le immagini dei film o delle serie tv, le ville hollywoodiane e lo sfarzo esibito. Mario Sergi agisce da uno scalcinato bar della periferia bolzanina, come dalle immagini che pubblichiamo. Nessuna ricchezza ostentata quindi, siamo alla banalità del crimine. Che diventa un lavoro come un altro.

Forse per questo c’è chi pensa che in fondo i mafiosi non sono poi tanto pericolosi..

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