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QT n. 5, maggio 2021 Servizi

La cultura della motosega

Considerati più un intralcio che una ricchezza, spesso gli alberi vengono “curati” sconciandoli con potature dannose, o addirittura abbattendoli.

È ormai evidente, in tutta Italia, nelle città e sulla viabilità, ovunque si è persa la cultura della gestione degli alberi e l’amore verso di loro. Certo, quando veniamo sollecitati a sostenere donazioni o petizioni per l’acquisto di alberi per piantumare boschi distrutti dal vento o per recuperare le foreste tropicali siamo generosi. Ma non appena questi monumenti vicini alla nostra porta (che una volta erano sacri), ci creano un minimo problema, o per la sicurezza, o l’umidità a ridosso delle abitazioni, o ci privano di un paesaggio, ricorriamo senza esitazioni alla motosega. Per lo più in modo selvaggio.

Da secoli la pianificazione delle grandi città europee ha prestato grande attenzione alle alberature: ampi viali, parchi ben strutturati con associazioni vegetali che avevano funzioni importanti: paesaggistiche, monumentali, tavolozze colorate, o ancora rifugio per tanti animali, avifauna in particolare, ricreazione. Il verde pubblico, come quello privato, offriva immagine e qualità, ma specialmente era vissuto come vetrina della bellezza. Anche le strade di collegamento da una città all’altra venivano arricchite di filari con piante imponenti grazie alle loro chiome possenti o eleganti: decine di poeti li hanno cantati. Ogni municipalità affidava la cura del suo patrimonio arboreo a personale specializzato.

Ma da alcuni anni le attenzioni dei nostri amministratori sono crollate: nelle piante vedono un disturbo, un fastidio del quale sarebbe bene non occuparsi. E infatti hanno privato le squadre operai di specialisti, danno in appalto veloci capitozzature, non certo la cura dell’albero; il tutto all’insegna del massimo risparmio. La capitozzatura, per chi non lo sapesse, è una potatura “violenta” che consiste nel taglio dei rami sopra il punto di intersezione con il tronco o un altro ramo principale, in modo che rimanga solo quest’ultimo o una parte della chioma, dopo una rimozione molto ampia, dal 50 al 100%.

Fino ad un recente passato qualche amministratore poneva una certa attenzione al rispetto dell’apparato radicale (un intreccio ampio due terzi del volume dell’intera pianta), almeno uno, due metri quadrati di spazio libero. Oggi invece si arriva a ridosso del tronco con l’asfalto o col cemento: garantire spazio alle auto è più importante.

Si è infastiditi perché le radici spezzano l’asfalto, penetrano nella rete dei servizi, acquedotti o fibre ottiche. Sono problemi reali, che vanno affrontati e risolti. Ma invece di valutare più opzioni si semplifica il problema abbattendo l’albero, e le capitozzature sono sempre più aggressive, vere e proprie violenze imposte alle piante.

Anche in provincia di Trento, e sempre più spesso, in comuni dei fondovalle come in quelli di montagna. Dalla legge urbanistica e prima ancora dal PUP è stata tolta (assessore Mauro Gilmozzi) la tutela delle piante che superavano i 40 centimetri di diametro, una delle tante felici intuizioni che ci aveva regalato la sensibilità di Walter Micheli. Il servizio viabilità ha culturalmente addomesticato i servizi forestali, privandoli di ogni autorevolezza. Questi ultimi, stanchi di resistere alle pressioni di responsabili dei servizi viabilità, hanno adottato il martello pesante (il martello forestale è l’attrezzo col quale si assegnano i tagli degli alberi nel bosco): ogni strada, provinciale o statale, viene privata di alberature, a monte come a valle, le incisioni sono sempre più ampie, fino a venti metri per parte. In pratica si trasforma la strada in un canale di scorrimento largo fino a 50 metri: uno straordinario invito per gli eventi ventosi: le correnti d’aria trovano così spazi dentro i quali rafforzare la loro forza distruttiva.

Ma non solo. Gli acclivi a monte della viabilità, privi di copertura vegetale importante, si prestano ad erosioni, quindi i franamenti sono più frequenti, è sufficiente un temporale nemmeno intenso per provocare una serie di piccole frane. E le piante crollano sulle strade. In pratica, la settorialità della visione del tecnico della viabilità, e diffuse debolezze dei forestali, invece di aumentare la sicurezza stradale espongono il cittadino a rischi che si sarebbero potuti evitare con una gestione corretta dei margini boschivi.

E avete osservato come i servizi viabilità decespugliano i margini dagli arbusti o dalla crescita di piante? Uno sradicamento, una violenta invadenza che oltre al danno creano sofferenza alle piante. A questo si sommano i tagli nel bosco destinati a favorire le emissioni delle frequenze telefoniche, squarci che hanno dell’indicibile, oppure lungo le linee elettriche. Le nostre strutture boschive fra piste di sci, impianti, viabilità anche forestale sempre più diffusa e ampia, linee elettriche, piste ciclabili hanno perso l’unitarietà di un tempo e sono miseramente frantumate in isolotti, perdendo così gran parte delle loro funzioni ecosistemiche, anche in tema di sicurezza e specialmente di conservazione della biodiversità.

È quindi utile riproporci una domanda: a cosa serve un albero, o un’associazione di piante? Quali le loro funzioni, anche in città? Se si è convinti della loro indispensabilità anche per la qualità del nostro vivere e l’armonia che diffondono, del valore che assumono in una comunità, bisogna riprendere la cultura del passato.

Quando intervenire

Le piante non andrebbero mai “curate” nel momento della gemmazione, della fioritura, dell’avvio della stagione, ma sempre e solo in situazioni di riposo vegetativo, tardo autunno o periodo invernale. Gli alberi sono delle abitazioni, spazi di vite intense anche quando silenziose: ospitano muffe, funghi, insetti, uccelli e i loro nidi. Nei parchi urbani austriaci gli scoiattoli vi salgono sulle gambe alla ricerca di cibo. Sono presenti perché nelle piante vetuste trovano spazi per i nidi. Oppure, all’eremo di San Francesco a Gubbio, si cammina mentre attorno si svolge un concerto di uccelli, perché le piante vengono ben gestite e quindi la nidificazione non ha ostacoli. Prima di ogni intervento, sia sulla singola pianta che in un parco o in un bosco, bisogna quindi pensare a questi aspetti.

Oggi invece la cultura della motosega impone ovunque capitozzature oscene. Questi interventi distruggono l’architettura di un albero: la pianta reagirà come può pur di sopravvivere, produrrà nuovi rami, sempre più fini e fragili, rami che saranno in competizione l’uno contro l’altro. Le ferite aprono spazi a nuove aggressioni: si depositano infezioni, si scavano al loro interno. Lo stesso tronco si ribella, diventa irregolare, la corteccia si fa sempre più sottile, le vene di linfa per lo più muoiono, si diffondono attacchi fungini, una situazione di debolezza che fa aumentare la vulnerabilità verso gli insetti xilofagi e la carie del legno. Le radici, private del necessario apporto nutrizionale dei rami, si indeboliscono e così si compromette, anche in tempi brevi, la stabilità dell’albero. Infatti, la soppressione dei germogli apicali interrompe la produzione dell’ormone correlato alla crescita delle radici. E ancora, una pianta indebolita e privata dell’imponenza della chioma, soffrirà anche per l’eccessiva esposizione al sole e subirà conseguenti scottature. Oltre a questo insieme di danni, si toglie specificità all’albero, alla sua forma e alle dimensioni, lo si priva della bellezza.

La capitozzatura è la più dannosa tecnica di potatura delle piante, rappresenta un pericolo perché rende l’albero fragile, anche brutto, privo della sua identità, una colonna ramificata e mutilata, privo della sua meraviglia biologica. Oltre tutto è costosa. Renderà necessari interventi sempre più frequenti e la pianta sarà meno tollerante rispetto gli stress ambientali e climatici.

Ci sono alternative? Ma certo. Anzitutto ci si dovrebbe affidare alla cultura di un arboricoltore. Il personale degli enti pubblici andrebbe formato e sensibilizzato. Si dovrebbe intervenire senza ridurre la chioma e senza intaccare la sua armonia, lavorando in periodo di riposo vegetativo o almeno rispettando le nidificazioni. Ritornare a valutazioni che coinvolgano più conoscenze scientifiche e specialmente dopo aver fatto dei monitoraggi attenti sullo stato di salute delle alberature. Infatti a volte, specie nelle città, sarà necessario intervenire dolorosamente anche con la rimozione.

Il Parlamento italiano aveva legiferato imponendo una normativa specifica sulla tutela degli alberi monumentali e quella legge (la 10/2013, “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”) prevedeva anche la salvaguardia di filari, alberature di pregio paesaggistico, naturalistico, storico, culturale, monumentale. Ma poi sono mancati i provvedimenti di attuazione causa l’immobilismo di tante Regioni o una raccolta dati approssimativa. In pratica, come avvenuto in Trentino, sono prevalse altre logiche: quelle della fretta, della semplificazione; si è affermata, invece della selvicoltura, una ingegneria priva di approfondimenti naturalistici e paesaggistici.

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