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Nel nome di Andreas Hofer

Gli Schützen fra storia, politica e folklore

Paolo Primon nella sede della Schützenkompanie Trient Major Giuseppe de Betta.

Con l’avvento di Internet si è enormemente ampliata la visibilità di certe nostalgie del passato, di nazionalità e regimi scomparsi da secoli: vedi la petizione per l’indipendenza della Liguria (2000) e della Toscana (2016) e la proposta di un referendum per l’indipendenza del Piemonte (2014). Altre spinte in questa direzione, più strutturate, riguardano il Veneto dei cosiddetti Serenissimi (1987) e i Neoborbonici, attivi fin dal 1993. Per non parlare, ovviamente, di casi storicamente più corposi (Sicilia e Sardegna).

Un caso a parte è il Sudtirolo, dove le tensioni autonomiste-indipendentiste non sono mai venute meno da che la provincia di Bolzano fu annessa all’Italia. E dove, nel nome di Andreas Hofer, fu creato nel 1957 il corpo degli Schützen. A ruota, ma solo ventisei anni dopo (1983) gli Schützen nacquero anche in Trentino (anzi, nel Welschtirol) connotandosi però in termini molto più folkloristici.

Gli Schützen – scriveva nel 1998 Alessandra Zendron - hanno combattuto per Dio, patria e imperatore. E contro i diritti di uguaglianza e libertà, diritti che oggi nessuno porrebbe in discussione. Questi principi erano tuttavia portati da un esercito nemico e quindi i tirolesi combatterono per salvaguardare la patria. Ci furono poi Schützen che durante il fascismo coraggiosamente si presentavano con i costumi tradizionali: in un regime totalitario, difendere la tradizione è difendere la libertà. Pochi furono invece gli Schützen che si opposero all’accordo fra i due fascismi per allontanare i sudtirolesi dalla loro patria, con pochi che rimasero, mentre la maggioranza obbediva al richiamo dei nazisti, ‘Heim ins Reich’ (A casa nel Reich), e abbandonava il Sudtirolo. Quale patria difendono dunque gli Schützen? Si ha l’impressione che perseguano un Sudtirolo che non esiste.

Il comandante Piock ha affermato ripetutamente che gli italiani possono al massimo essere ‘ospiti’ in Sudtirolo. E poi sono venuti gli attacchi alla Chiesa, fino al rifiuto degli Schützen di Appiano di partecipare alla messa bilingue: evidentemente è l’influenza della cultura della Nuova Destra europea, che attacca, come la Lega in Italia, i portatori dei principi universali.

Il Sudtirolo sta cambiando e ha bisogno di nuovi simboli, di nuove visioni per il futuro, alla costruzione delle quali devono partecipare tutte le persone che. ci vivono. Le visioni del futuro e un’identità non possono fondarsi sui miti e sulla semplificazione dell’identità riducendola a nazionalità, pena il rischio del nazionalismo e del razzismo”.

A Trento

Gli Schützen – scrivevamo nel 1999 - stanno ultimamente dilagando trionfali per il Trentino, con la fondazione di nuove compagnie anche a Trento, a Rovereto, e, l’anno prossimo, a Riva del Garda. La conquista del capoluogo, nello scorso luglio, fu contestata da due storici, Sergio Benvenuti e Vincenzo Calì, che sollevarono qualche dubbio sulla plebiscitaria ‘tirolesità’ del Trentino e mal gliene incolse, perché Carlo Andreotti si infuriò arrivando a chiedere le dimissioni di Calì dalla direzione del Museo Storico. E gli Schützen sfilarono in piazza Duomo, col loro comandante, Paolo Primon, che ha il grande cruccio di dover guidare le sfilate disarmato, perché la legge glielo impone; il che è una prova - dichiara al Dolomiten - «dello stato di polizia in cui viviamo»“.

Ma subito, fra gli Schützen ‘ufficiali’ e la neonata (1999) compagnia di Trento creata da Primon si apre una vertenza, “originata dalla pretesa di quest’ultimo di sfilare con le armi; una richiesta non condivisa dal Landeskommandant Carlo Cadrobbi, che prima di accogliere nella Federazione Schützen del Welschtirol Primon e i suoi, ritenuti un po’ troppo vivaci, decreta un periodo di osservazione di un anno.

Il contrasto è riemerso pubblicamente in occasione della assemblea annuale degli Schützen. La sede dell’incontro - c’informa L’Adige - era presidiata da un attento servizio d’ordine che doveva «impedire l’intrusione degli indesiderati della compagnia ‘De Betta’ che fa capo a Primon». E gli eretici, in effetti, gironzolavano nei pressi, impossibilitati ad entrare. Dentro la sala, intanto, il Landeskommandant se la prendeva con «quei personaggi che aderiscono agli Schützen per avere una cassa di risonanza ad un multicolore percorso personale, ma che non hanno compreso gli ideali ispiratori degli Schützen». E poi picchiava i pugni sul tavolo: «So chi è questo signore che mi vuol far paura lasciando sulla mia segreteria telefonica messaggi intimidatori, minacciando di dare alle fiamme la mia casa o distruggermi la campagna. La sua voce l’ho riconosciuta ed ho consegnato le cassette in Questura».

Questi i termini del fraterno dibattito in corso all’interno di un mondo che vanta come propri valori la fede, l’attaccamento alle tradizioni, la concretezza e la solidarietà (almeno fra trentini)”.

A Bolzano

Più serio, naturalmente, il fenomeno in Sudtirolo, ma non molto più preoccupante. Ecco la cronaca di una “Marcia della libertà” del 2012: “Il questore aveva ordinato una strettissima sorveglianza per impedire che la manifestazione degli Schützen a Bolzano fosse disturbata. Loro avevano preparato un ‘manifesto per l’indipendenza’ da consegnare al prefetto, davanti alla cui sede passava la marcia, dirigendosi poi al monumento e al centro storico, per poi finire in piazza Magnago. Però alla prefettura non li aspettava nessuno, il prefetto aveva detto che non li avrebbe ricevuti. Il manifesto è stato consegnato ai rappresentanti politici dei più piccoli partiti dell’estrema destra. Gli altri - Svp e Freiheitlichen - mancavano alla sfilata, come anche numerose compagnie di Schützen, perché non condividevano la vera ragione della marcia, indetta per protesta contro la riunione festosa degli alpini di metà maggio.

Alle 7 della sera, 2.500 o 3.000 Schützen, agghindati nei costosi costumi pagati dalla Provincia, si sono radunati in piazza Gries, scendendo da decine di pullman venuti dalla Pusteria e dalla Venosta, e hanno formato il corteo. Il quartiere di Gries, residenza della borghesia italiana e tedesca, era deserto. Hanno atteso fino alle 20 che facesse buio, poi, accese le fiaccole, avanti! Il palazzo ducale, sede della prefettura, era buio e chiuso. Lungo il viale, qualche coppia e qualche persona col cane facevano la passeggiata serale.

Nel centro, la poca gente non si è fermata a guardare. Nei bar, nelle piazzette e sotto i Portici, i primi protagonisti della movida bolzanina del sabato sera non hanno alzato gli occhi dai loro bicchieri. In piazza Sernesi, davanti all’università, gruppetti di studenti si intrattenevano fra loro e in piazza Walther i clienti dei bar non hanno interrotto le loro chiacchiere, nonostante il minaccioso rullare dei tamburi.

Quale risposta migliore a questi capi pseudo-militari che hanno scelto una linea aggressiva e fanno politica anziché cultura, pur incassando ricchissime sovvenzioni provinciali? Capi che sono in conflitto con i colleghi del Tirolo, seccati dalle loro posizioni estremiste, e che per nascondere i propri fini portano con sé in marcia uno sparuto gruppetto di Trentini e di ‘Veneti/Tiroler’, come si leggeva su un divertente volantino in dialetto veneziano e in tedesco distribuito dagli esponenti della Liga Veneta.

Alla fine della sfilata, sul marciapiede davanti ai giardini della stazione, una decina di ragazze reggevano in silenzio striscioni scritti col pennarello. Le scritte dicevano: «Gemeinsam in die Zukunft, statt einsam hinter den Grenzen» (Insieme nel futuro piuttosto che soli dietro le frontiere); «Los von der Vergangenheit» (Via dal passato). E un ironico: «Für den Anschluß an die Osterinsel» (Per l’annessione all’Isola di Pasqua). Una fragile e insieme forte voce della speranza di pace e convivenza della gioventù, e insieme risposta civile e profonda al rullare dei tamburi”.

Giù le mani dall’inno!

Tirol isch lei oans”, recita un vecchio adagio. “Il Tirolo è unico”. Meno male. Essendo unico, non solo ha un inno ufficiale, ma esiste anche una legge provinciale tirolese (la n. 23 del 2 giugno 1948) per proteggerne la dignità. La quale legge stabilisce che testo e melodia formano “un insieme inscindibile”. Chi altera la melodia o il testo rischia un mese di arresto.

L’inno è la Canzone di Andreas Hofer, testo di Julius Mosen e melodia di Leopold Knebelsberger. Il che è una bugia, perché la melodia è stata copiata a Beethoven (Concerto per pianoforte n. 1, 3° movimento). Quanto al testo, il Mosen, come poeta, non era un granché: era più che altro un militante pangermanico.

La melodia, fino ai primi decenni del ‘900, è stato usata nei più diversi contesti. Una ricerca ha documentato ben sette diverse versioni, fra cui una vecchia canzone del movimento operaio popolarissima nella “rossa” Vienna degli anni ‘20. Un’altra versione era usata dai partigiani sui monti della Carinzia nella lotta antinazista.

Da queste aberrazioni bisognava proteggere l’inno di Hofer quando, nel 1948, divenne inno ufficiale del Tirolo, con Hofer culmine della “tirolesità”. Così, chi non si riconosce nel pomposo linguaggio di “guerra santa di liberazione” e “morte eroica”, stia zitto, altrimenti un mese di galera.

Nel febbraio di quest’anno, durante una commemorazione dei fatti del 1934 (quando il governo fascista di Dollfuss soffocò nel sangue la rivolta del movimento operaio), un coro del partito socialdemocratico cantò la versione “proletaria” dell’inno. Successe il finimondo: il comandante degli Schützen gridò all’oltraggio e chiese misure punitive. Almeno in teoria, poteva finire in galera perfino il vicecapitano socialdemocratico, reo di aver assistito all’oltraggio.

I verdi in Consiglio hanno presentato una proposta di legge che chiedeva l’abolizione delle sanzioni penali. Successe di nuovo il finimondo. La coalizione governativa, compresi i socialdemocratici, presentò un contro-emendamento chiedendo una “riforma” con sanzioni “più adeguate allo spirito dei tempi”. Che ne so, magari una multa, o magari tre avemaria e cinque paternoster. E quando i verdi rifiutarono di ritirare la loro proposta, lo stesso Capitano insorse in aula per smascherare i traditori della patria, i sovversivi pronti a distruggere le sante tradizioni. A un certo punto, il Capitano chiese perfino di interrompere la seduta perché tutta la gente brava e buona potesse cantare l’inno; richiesta fortunatamente respinta dal Presidente, che probabilmente aveva capito che si stava sfiorando il ridicolo.

Hofer come simbolo iconografico della “tirolesità” è una costruzione tutta ideologica che serviva a collegare idealmente i nazionalisti pangermanici e l’ala destra dei social-cristiani. Da questo incontro sarebbero poi nati, negli anni Venti, gli “Heimwehren”, le squadre del fascismo nostrano. Il Tirolo è unico. Meno male.

Gerhard Fritz