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Pechino, 4 giugno 1989

Una testimone diretta degli eventi ricostruisce, a trent’anni di distanza, come si arrivò alla strage di Tienanmen. Da “Una Città”, mensile di Forlì

Ilaria Maria Sala

Secondo gli standard di Pechino, nel 1989, le dieci di sera era già molto tardi. Le serate erano sempre molto tranquille. Il cancello della Bei Shi Da, nome abbreviato dell’Università Normale di Pechino, veniva chiuso a chiave poco prima di quell’ora. Se qualcuno fosse rimasto fuori, bisognava fare rumore sbattendo il lucchetto sul cancello per svegliare lo shifu, l’addetto che dormiva nella sua cuccetta lì vicino. Si sarebbe alzato e ci avrebbe lasciati entrare con uno sguardo di disapprovazione. Noi avremmo sorriso ammettendo il nostro torto, e ci saremmo scusati, ma eravamo troppo giovani per dispiacerci sul serio.

Chiamavamo tutti shifu: l’uomo al cancello, quello all’ingresso del dormitorio degli studenti stranieri, quello che guardava il nostro andirivieni da un piccolo ufficio poco dopo la porta, e la coppia che sapeva tutto di noi. Trascrivevano in un libro le nostre telefonate e ci chiamavano ad alta voce perché tutti sentissero che eravamo richiesti al telefono. Facevano in modo di gridare anche il nome di chi ci stava chiamando. Solo ora mi dico che era il modo per farci capire che lì non c’era posto per alcuna pretesa di riservatezza.

La maggior parte degli shifu indossava abiti dismessi dell’esercito. Giacche e pantaloni di tela blu o verde, pratiche e piene di tasche. Tutti le indossavano, fino al 4 giugno. Poi, dopo che l’esercito intervenne con la forza sulle proteste studentesche, le divise verdi vennero bruciate nelle strade, in alte pire rabbiose. Dopo l’intervento dell’esercito contro gli studenti, la gente si metteva in fila nelle strade per gettare nelle pire a cielo aperto tutto ciò che apparteneva ai soldati e che era stato fino ad allora tenuto di conto per la sua utilità: giacche e pantaloni, scarpe e berretti, persino i pesanti giacconi invernali e i cappelli imbottiti, pratici nei duri inverni pechinesi. Un gesto carico di dolore, di sfiducia, di rabbia.

Ma sto correndo troppo in fretta inseguendo i miei ricordi.

La morte di Hu Yaobang

Era la sera del 16 aprile. Me ne stavo nel dormitorio, intenta a memorizzare la mia quota giornaliera di caratteri cinesi. D’improvviso, cominciarono a filtrare suoni insoliti e così mi affacciai al balcone che dava su via Xin Jie Kou, la grande strada che va da nord a sud, e che all’epoca era adornata da pioppi. Oggi i pioppi sono stati tagliati, e anche la ciclabile che ci passava in mezzo è stata ristretta: Xin Jie Kou è diventata una strada a sei corsie. Nel chiarore della sera intravidi persone in marcia, alcuni che intonavano slogan, chiamando a raccolta gli studenti della Bei Shi Da. Andai di sotto e uscii a chiedere cosa stesse accadendo. Uno degli shifu mi chiamò col mio nome cinese: “Lan Ruiya! Non andare!”. Risposi che stavo solo uscendo a parlare con la gente in strada.

Erano un paio di centinaia di studenti, forse di più. Qualcuno disse che andavano a Tienanmen, perché era morto Hu Yaobang. Era un eroe, dicevano. E che dovevano commemorarlo, perché era caduto in disgrazia per essersi schierato con loro.

Hu Yaobang era parso l’ovvio successore di Deng Xiaoping, fino a due anni prima, quando gli studenti erano scesi in strada a rivendicare riforme economiche e politiche, e lui si era esposto per difenderli. Venne rimosso da Segretario Generale del Partito e costretto al pensionamento. Gli studenti lo vedevano come un riformista messo da parte ingiustamente, uno che avrebbe potuto far andare il Paese in una direzione più giusta: meno corruzione, meno nepotismo, più aperture politiche.

Gli studenti non volevano che il Partito orchestrasse un funerale di basso profilo, come succedeva per i politici in disgrazia. Hu meritava i più alti onori. Poco dopo, alcuni corrispondenti stranieri vennero a farci delle domande, scendendo trafelati dai tassì che avevano trovato per miracolo a quell’ora: avevamo visto i manifestanti? Dov’erano andati? Perché protestavano? Quanti erano?

I giornalisti erano stati costretti a un tour de force a tarda notte, perché era in corso qualcosa di raro come una manifestazione di protesta. Nessuno poteva ancora immaginare che quello sarebbe diventato un elemento fisso del paesaggio per quasi due mesi.

Qualcuno chiedeva che si indagasse sulla morte di Hu: era stato davvero un infarto? Cosa gli avevano fatto? Il suo cuore si era forse indebolito per le sofferenze che il Partito gli aveva imposto?

La primavera di Pechino faceva starnutire, ora che i pioppi spargevano nell’aria il loro polline bianco, portato in giro dal vento come neve secca. Ma noi stavamo all’aria aperta, sempre.

Il 21 aprile un’altra marcia notturna passò davanti alla Bei Shi Da. Gli studenti temevano che le autorità avrebbero impedito loro di prendere parte al funerale di Hu Yaobang, visto che avevano saputo che piazza Tienanmen sarebbe stata chiusa. Perciò decisero di andarci la sera precedente e trascorrervi la notte, facendosi chiudere dentro.

Tutti camminavano sotto un grande striscione, e poi ce n’era uno più piccolo: quello grande era quello dell’istituzione di ciascuno; poi, a seconda di quale fosse la sezione, o il dipartimento, o la classe di appartenenza, c’era uno striscione più piccolo.

Intorno alle persone in marcia, un servizio di sicurezza improvvisato si teneva per mano. “Così, se qualcuno che non dovrebbe stare qui prova a entrare, verrà notato”, disse qualcuno con tono da esperto. Uno studente mi si avvicinò per dirmi di fare attenzione - potevano esserci delle spie - e di non dare dettagli personali. “Non parlare agli sconosciuti; non accettare caramelle da estranei”, scherzai con una compagna. Poteva davvero essere pericoloso? Con tante persone intorno, sembrava impossibile.

L’immensità di piazza Tienanmen inghiottiva migliaia di studenti. Io stavo sotto al monumento agli Eroi del Popolo, come da ordini degli studenti più grandi, che pensavano che quello fosse il punto più protetto, se la polizia avesse deciso di sgomberare la piazza.

Nessuno dormì quella notte. Mentre albeggiava, una fila di soldati venne fuori dalla Grande Sala del Popolo per circondare la piazza. Poi un’altra. E un’altra ancora. Bloccarono le uscite dalla piazza e gli accessi al palazzo. Ce ne stavamo a guardare, chiedendoci cosa avrebbero fatto. Ma non fecero nulla di violento. Si sedettero, guardando fisso davanti a sé, mentre a migliaia scattavano foto e provavano a parlare con loro, o festeggiavano, o piangevano il morto. Dopo poche ore, alcuni dignitari salirono gli scalini della Grande Sala del Popolo per prendere parte al funerale che si svolgeva là fuori. Si giravano tutti a guardare la piazza affollata: la cerimonia si sarebbe svolta con solennità o in maniera disordinata, con interventi fuori programma dei manifestanti? Tre studenti si fecero avanti e attraversarono la fila dei soldati per inginocchiarsi ai gradini e deporre un appello: io allungavo il collo per vedere, mentre l’audace gruppetto indulgeva nel rito feudale dell’umiltà, inginocchiandosi di fronte alle autorità cui stavano disobbedendo, implorando ciò che ritenevano un loro diritto.

La folla si disperse lentamente dopo il funerale, sobria e vittoriosa. Nessuno era stato ferito. Hu Yaobang apparteneva agli studenti. Stava a loro commemorarlo.

Ma non è finita

Le manifestazioni continuarono nei giorni successivi. Dalla mensa, i cuochi e i camerieri uscivano con striscioni e bandiere e si univano ai manifestanti. In un asilo vicino, gli insegnanti, che avevano legato ai polsi dei bimbi un fiocco rosso per non perderli, fecero uscire i piccoli per permetter loro di vedere gli studenti che protestavano. Mi sono spesso domandata se quei bambini, che ora avranno circa trent’anni, conservano qualche ricordo di quelle scene e di quel fiocco.

Il 26 aprile, un editoriale del Quotidiano del Popolo denunciò le proteste, definendole una rivolta contro il Partito. Ciò fece infuriare le persone, che decisero che avrebbero marciato ancora di più.

L’indomani, questa decisione si trasformò in una grande protesta. Il corteo si snodava dalle università del nord-ovest della città fino al centro, mentre altri si aggiungevano lungo il percorso. I soldati provarono a impedire ai manifestanti di passare, ma quando la folla si faceva pressante lasciavano passare; nessuno si fece male, e la rabbia fece spazio al trionfo. La cosa non riguardava più solo Hu Yaobong, anche se il suo ritratto, dipinto per il funerale alternativo organizzato dagli studenti, dominava ancora la piazza.

Arrivò il 4 maggio, anniversario delle manifestazioni studentesche più importanti della storia cinese, quelle che contestarono la debole risposta del governo nazionalista al trattato di Versailles, nel 1919. Ci si aspettava un milione di persone in marcia verso la piazza. L’editoriale del Quotidiano del Popolo era diventato il bersaglio della rabbia dei manifestanti, rabbia che si accompagnava alle richieste di riforme. Era un movimento di giovani eccitati dalla speranza e dalla determinazione, che si arrampicavano sui camioncini per alzare al cielo gli striscioni col nome della loro scuola.

La gente stava in cima ai palazzi più alti e ai ponti pedonali, salivano sugli alberi, su tutto ciò che consentiva elevazione e guardavano in basso verso gli studenti con stupore e speranza. Un ciclista reputò che una straniera come me, malgrado la giovane età, avesse un’opinione degna di essere sollecitata, e mi chiese cosa pensavo delle manifestazioni. Incerta, e memore del non dare confidenza agli sconosciuti, risposi: “È molto interessante”, senza sbilanciarmi. Si innervosì un po’: “Interessante? Questo è straordinario! Questo… questa è democrazia!” Pedalò via, senz’altro un po’ deluso.

A piedi e in bicicletta, in autobus o con i camioncini, frotte di persone passavano per controllare cosa stesse accadendo e unirsi ai concerti e ai dibattiti. I soldati facevano la guardia davanti alla Città Proibita, ma non accadeva mai nulla. Finché il 13 maggio gli studenti decisero di forzare le cose dando inizio a uno sciopero della fame in piazza.

Io andai a Tienanmen il giorno dopo e vidi che alcuni volontari avevano organizzato un servizio di assistenza per coloro che accusassero malori. Nei giorni successivi, lo sciopero della fame acquistò toni drammatici. Molti studenti svenivano, cominciavano a vedersi le tende, e bus in sosta venivano trasformati nel quartier generale di svariati gruppi. Di giorno e di notte, la gente veniva in piazza per parlare con gli studenti, portar loro acqua e medicine, sostenerli.

La stampa aveva cominciato a divulgare notizie sempre più prossime al vero. I giornalisti stranieri, venuti a Pechino per lo storico summit fra Russia e Cina, si chiedevano come coprire quotidianamente manifestazioni che sembravano dilungarsi in eterno.

Una settimana dopo a Pechino fu dichiarata la legge marziale e alla stampa venne messa di nuovo la museruola, sicché i quotidiani dei giorni precedenti divennero preziosi, e studenti e cittadini li mostravano ai soldati schierati a ogni angolo: “Questi sono i nostri studenti. Non sono controrivoluzionari”.

Le motociclette e i taxi, ribattezzati “Tigri volanti”, si univano alle pattuglie di volontari, correndo intorno alla città per avvisare se c’erano movimenti sospetti di truppe. Nonne e nonni si dedicavano al pattugliamento delle strade, pronti a dare l’allarme.

E alla fine successe. Cominciò tutto la sera del 3 giugno, quando un gruppo di operai in sciopero venne picchiato; e la risposta violenta andò avanti per giorni. Poi si fece avanti l’esercito: non gli stessi soldati che avevano accettato cibo, acqua e consigli dai vecchietti; no, truppe fresche che non avevano visto, letto, sentito nulla.

Spararono e uccisero. Sfondarono con i loro carri armati. Scioccarono un’intera città, un’intera nazione, il mondo intero. Cominciarono gli incendi, vennero dati alle fiamme carri armati e divise militari. E con essi anche i sogni.