Rispetto e parità tra uomo e donna: la Lega dice NO
Le colpevoli mistificazioni mirate a screditare un progetto formativo valido e apprezzato
“Con la presente, in riferimento alla nota prot. 541353 del 24 settembre 2018 con la quale si comunicava l’approvazione della domanda di attivazione di percorsi nell’ambito del progetto ‘Educare alla relazione di genere’, si informa che l’avvio dei suddetti percorsi è stato sospeso in attesa di approfondimenti ulteriori da parte della Giunta Provinciale”. Esordisce così la circolare dell’assessora Stefania Segnana, datata 28 dicembre 2018, con la quale si comunica – appunto – la sospensione del progetto attivato nelle scuole trentine a partire dal 2010.
È solo la traduzione burocratica dell’offensiva che l’assessora leghista alle politiche sociali e il titolare dell’assessorato all’istruzione Mirko Bisesti, hanno lanciato, appena insediati, all’indirizzo del sopracitato progetto, più in generale della scuola pubblica e, infine, delle formatrici responsabili del progetto stesso.
Motivo della sospensione, la necessità di “verificare la piena coerenza dei contenuti educativi dei percorsi con le aspettative delle famiglie rispetto ai valori che la Giunta Provinciale intende perseguire”. Una giustificazione che lascerebbe presupporre diffuso malcontento e frequenti lamentele rispetto a un progetto quasi decennale; lamentele e malcontento mai, però, documentati, se non attraverso notizie tendenziose rilanciate a raffica dal consigliere di Agire per il Trentino Claudio Cia e dal suo quasi-candidato Roberto Conci, editore e deus ex machina del giornale on-line “La Voce del Trentino”.
Cia e Conci hanno infatti sostanziato le riserve degli assessori con un concerto di accuse più o meno velate. Soprattutto nei confronti delle formatrici, aggredite con violenza anche su Facebook.
Cia e la sua intransigente task force parlano di “gender”: vocabolo che non vorremmo neppure citare, ma sul quale è necessario fare chiarezza. Il termine, che è il corrispettivo letterale inglese di “genere”, si riferisce in modo piuttosto neutro ai ruoli di genere nella società, ma ha oramai assunto nel dibattito pubblico, su spinta di un certo cattolicesimo retrivo, un significato negativo legato alla presunta intenzione di minare alle basi la famiglia tradizionale e la “natura” (beninteso, divina) dell’orientamento sessuale. Peccato che il progetto “Educare alla relazione di genere” si occupi di tutt’altre cose.
Il progetto educativo
Già nel 1979 la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), promossa dalle Nazioni Unite, indicava la scuola come ambiente privilegiato per promuovere una cultura di parità e allo stesso tempo combattere gli stereotipi di genere.
La Dichiarazione di Pechino del 1995 forniva indicazioni simili. Nello stesso anno, l’Assemblea parlamentare del Consiglio di Europa sulla parità di genere in educazione definiva gli obiettivi e gli ambiti di intervento utili a promuovere azioni e politiche di parità nel campo dell’educazione; e nel 2007 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa forniva ulteriori indicazioni.
In Italia, tra il 2008 e il 2011, Dipartimento per le Pari Opportunità e Ministero dell’Istruzione avviavano moduli didattici sulla diversità di genere. In Trentino è una legge provinciale del 2012 a promuovere “l’introduzione delle pari opportunità nella programmazione educativa delle scuole di ogni ordine e grado”.
Come si vede, sono basi normative internazionali, nazionali, provinciali quelle su cui poggia il progetto “Educare alla relazione di genere”. Nato dalla collaborazione tra Iprase, uffici provinciali e Centro di Studi di Genere dell’Università di Trento, il progetto ha attraversato tra il 2011 ed il 2014 una fase di sperimentazione che ha consentito di consolidare la struttura teorica e definire le attività di laboratorio da proporre in aula.
Il volume “Educare alla relazione di genere”, pubblicato nel 2015 da Iprase, riporta i concetti teorici alla base del percorso educativo proposto e un resoconto dei risultati della sperimentazione.
A partire dall’idea di parità. “A scuola devono essere tutti uguali” è una frase che richiama uno spazio democratico nel quale gli alunni e le alunne non vengono discriminati e hanno le stesse opportunità. Ma si può trattare di una parità illusoria, se non adeguatamente declinata: perché l’approccio didattico prevalente è basato su un’idea di neutralità che ha una connotazione storica sostanzialmente maschile e perché la neutralità stessa può risultare un “appiattimento” che lascia ampio spazio agli stereotipi di genere. Anche i libri di testo possono farsi veicolo di definizioni stereotipate di “maschio” e “femmina”; e gli insegnanti partire da retaggi culturali e aspettative che possono indirizzare in maniera determinante la costruzione della personalità degli alunni e delle alunne.
Non è un caso che dopo la scuola media ragazze e ragazzi siano orientati verso percorsi di studio considerati “femminili” e “maschili”. E che questo si traduca poi a sua volta nella segregazione occupazionale delle donne nel mondo del lavoro: indirizzate verso impieghi, come l’insegnamento o i lavori collegati alla cura della persona, di minore prestigio sociale, peggio retribuiti e con i quali è più difficile fare carriera. Per contro, gli uomini possono accedere (o devono accedere, in determinati casi) a posizioni più prestigiose, ma non è detto che ciò rifletta le loro attitudini e le loro aspirazioni.
Dagli anni ‘70 ad oggi l’attenzione degli studiosi ha attraversato diverse tappe: inizialmente una pedagogia dell’uguaglianza, in grado di spostare la formazione delle ragazze da “un’educazione pensata per non istruirle” a percorsi variegati, ma con il rischio di un’indifferenziazione; cui seguiva una pedagogia della differenza, che valorizzava i caratteri particolari ma al tempo stesso si concentrava più sulla femminilità che sulla maschilità; fino all’attuale pedagogia della molteplicità o della complessità. È in quest’ambito che si è venuta a definire la “relazione di genere”, come decostruzione dello stereotipo e ridefinizione del proprio essere nella società.
Cosa si faceva
Il progetto “Educare alla relazione di genere” si rivolge a ragazzi e ragazze di età compresa tra gli 11 e i 19 anni. Ma non solo: a partire dal suo secondo anno, ha coinvolto prima insegnanti e poi genitori con moduli formativi dedicati, tanto che oggi il catalogo dei percorsi presenta in larga parte attività rivolte agli adulti.
I percorsi vengono personalizzati e costruiti sulla classe interessata attraverso un meccanismo di progettazione partecipata che coinvolge formatrici ed insegnanti.
Per quanto riguarda gli obiettivi formativi principali del progetto, poco hanno a che vedere con i “pensieri fuorvianti capaci di minare l’equilibrio dei nostri ragazzi” di cui sproloquia il consigliere Cia.
Si parla invece di prevenire la violenza di genere e il bullismo, i cui numeri sono spaventosi, attraverso la diffusione di dati sul fenomeno, l’attenzione al lessico e alle modalità di narrazione dei fatti di cronaca sulla stampa, il confronto e la discussione su quanto analizzato.
Di educare a scuola per eliminare le successive diseguaglianze sociali in termini di opportunità, differenze di possibilità, disparità salariali, segregazione occupazionale, distorsioni legate alla maternità (la perdita del lavoro o la necessità di abbandonarlo per potersi occupare della prole).
Di creare consapevolezza intorno alle scelte formative, smontando gli stereotipi e fornendo gli strumenti per progettare la propria vita.
Di riconoscere gli stereotipi di genere nelle immagini dei mass media, analizzando la rappresentazione dei modelli estetici e dei ruoli maschili e femminili proposta in particolare dai programmi televisivi di intrattenimento e dalla pubblicità per fornire gli strumenti analitici necessari a interpretare queste immagini e a riconoscere in esse allusioni, proiezioni e luoghi comuni.
Detto tutto ciò, è facile e un po’ deprimente capire perché un partito come la Lega non voglia portare nelle scuole un progetto di questo tipo. Come potrebbe giovargli, infatti? Che vantaggi potrebbe portare l’emancipazione culturale ad un partito che ha fatto della scurrilità e della prepotenza le sue cifre distintive?
Un progetto apprezzato da studenti, insegnanti, genitori
Quello della destra è un timore giustificato, dato che la risposta al progetto, in termini di efficacia, è stata forte. Basta leggere le considerazioni che le ragazze ed i ragazzi iniziano a maturare durante lo svolgimento dei laboratori.
Una ragazza del liceo scientifico di Primiero, ad esempio, si esprimeva così circa la cura dei figli e le possibilità di carriera: “…ad esempio, mio fratello di due anni e mezzo... è mia mamma che sta a casa e lavora part-time per stare con lui, non è mio papà. Perché deve essere per forza così?... È bello nella vita avere una famiglia e avere dei figli, però è bello anche lavorare e avere una realizzazione personale. Ma perché una donna deve rinunciare a un lavoro e a una carriera solo perché è obbligata ad avere figli, cioè a crescere i figli perché si è convinti che sia la donna che debba fare questo? Non è giusto”..
“Guardando alcuni video ci siamo resi conto di come venga utilizzato esageratamente il corpo della donna anche in contesti non appropriati. Ci ha molto colpito il fatto che, pur vedendo queste pubblicità tutti i giorni, non ci siamo mai resi conto di questo spropositato uso del corpo femminile. Certe persone hanno cambiato il loro modo di pensare proprio per questo motivo”, spiegava un ragazzo dell’istituto “Pilati” di Cles.
Una ragazza del liceo “Rosmini” di Rovereto descriveva invece così l’esperienza fatta durante i laboratori: “E comunque sono venute fuori anche cose che magari non sapevi di un’altra persona e sono venute fuori in un modo molto bello, proprio la gente si sentiva… tutti hanno parlato e tutti si sono sentiti liberi di dire quello… le loro esperienze e le loro idee su tutti i punti che abbiamo trattato”.
Anche dagli insegnanti arrivano segnali di forte apprezzamento per il progetto e per come viene condotto. Qualcuno parla di “efficaci riflessioni sull’argomento usando una metodologia che è piaciuta molto ai ragazzi” e fa presente che “molti genitori ci hanno segnalato di aver notato cambiamenti positivi nei loro figli che si sono aperti in famiglia esprimendo considerazioni sull’uso della pubblicità, sui ruoli sociali maschili e femminili, sul riconoscimento di pregiudizi e del rispetto del prossimo come mai avevano fatto prima”; un’insegnante ringrazia per averle permesso di assolvere al suo compito “nel migliore dei modi con grande disponibilità e mettendo a disposizione una esperta-formatrice competente, sensibile e adeguata alla particolare età dei nostri alunni che hanno seguito gli interventi con interesse e grande partecipazione”.
Alcuni docenti hanno poi contestato direttamente l’azione degli assessori. “L’educazione sessuale non è argomento del progetto, non sono mai stati affrontati argomenti di orientamento sessuale, tantomeno nei termini provocatori e divisivi riportati da chissà chi. So però che studiosi ed esperti hanno lavorato a lungo con competenza insieme agli insegnanti per preparare il progetto. Chiedo all’assessore: dove è finita l’autonomia didattica? È diventato lui il referente scientifico e didattico per noi insegnanti?”, scrive una docente; e tre colleghi, in una lettera pubblicata dall’Adige, facevano notare che i corsi avrebbero dovuto iniziare a febbraio di quest’anno e dunque la loro sospensione a tempo indeterminato causa difficoltà organizzative non indifferenti alle scuole coinvolte.
I dirigenti scolastici si sono a loro volta espressi in maniera piuttosto netta dopo la circolare dell’assessora Segnana. Il prof. Paolo Pendenza, dirigente dell’istituto “Degasperi” di Borgo Valsugana e presidente trentino dei dirigenti scolastici, ribadisce che i corsi sono estremamente apprezzati dai genitori e che non sono obbligatori: dunque i ragazzi che decidono di non avvalersene possono non frequentare, senza nemmeno dover giustificare la scelta.
Pendenza esprime due perplessità rilevate dai dirigenti. In primis, le motivazioni con le quali questi percorsi sono stati interrotti: la circolare di Segnana, come già riportato, esprime la necessità di “verificare la piena coerenza dei contenuti educativi dei percorsi con le aspettative delle famiglie rispetto ai valori che la Giunta provinciale intende perseguire”, ma in verità la Giunta fissa indicazioni generali e obiettivi per la scuola e da nessuna parte, nella normativa e nei regolamenti, si parla di “valori”. Inoltre, secondo quanto riportato da alcuni giornali, qualche genitore avrebbe rilevato comportamenti poco corretti legati ai corsi in questione; se ciò fosse vero, il mancato coinvolgimento dei dirigenti, prima di decidere di una sospensione dei corsi, sarebbe il segnale di un comportamento per lo meno poco ortodosso da parte degli assessorati competenti.
E a proposito delle presunte lagnanze da parte di genitori sbandierate da Lega e Agire per il Trentino, l’iniziativa di sostegno al progetto promossa da Maria Giovanna Franch su Change.org ha raccolto nel frattempo 9.000 firme in appena tre settimane.
Le operatrici come professioniste, lavoratrici, donne
Chissà se tra i “valori che la Giunta Provinciale intende perseguire” c’è qualcosa di attinente alla dignità del lavoratore e alla salvaguardia della sua professionalità.
Perché le formatrici del progetto “Educare alla relazione di genere” sono state oggetto di una gogna mediatica rivoltante: “Nei profili Facebook di queste persone si può notare che ci troviamo di fronte a dei veri e propri attivisti politici che promuovono pensieri fuorvianti capaci di minare l’equilibrio dei nostri ragazzi”, ha dichiarato qualche giorno fa il consigliere Claudio Cia.
E il 23 gennaio, in risposta all’interrogazione della consigliera del PD Sara Ferrari in merito alla questione, l’assessora Segnana ha rincarato la dose. Ha tenuto a precisare che i corsi sono stati sospesi, non annullati, e che “riguardo al progetto, nel momento in cui leggiamo le slide, sicuramente nessuno ha da ridire su tante cose”; ma poi ha tirato in ballo l’ufficio delle Pari opportunità, che avrebbe espresso indicazioni relative non tanto al progetto, quanto piuttosto alle formatrici, al modo in cui si pongono con studenti e insegnanti e in cui propongono il progetto stesso.
Un progetto che, lo ricordiamo, viene scelto dalle scuole e passa da Collegio docenti, Consiglio di classe, Consulta dei genitori e Consiglio di istituto.
Dunque viene messa in dubbio l’integrità delle formatrici. Le quali però sono figure professionali preparate, oltre che lavoratrici e persone. Al netto di confusi sproloqui solipsistici, gli assessori Bisesti e Segnana hanno il coraggio di dire che le hanno lasciate senza lavoro in nome di vaghe e farraginose teorie?
Le formatrici non si sono improvvisate tali. Sono state selezionate per titoli ed esperienza tramite un bando pubblico dell’Università di Trento. Quindi in qualche modo a essere messa in discussione è anche l’istituzione universitaria.
Eppure gli strumenti nelle mani degli assessori dovrebbero consentire loro di valutare i contenuti e i metodi in maniera più approfondita e accurata di quanto non abbiano fatto. Anche perché le attività del progetto sono state costantemente monitorate tramite la realizzazione di rapporti che vengono messi a disposizione degli assessori di riferimento. Bisesti e Segnana hanno i contatti di tutti i referenti, tutti i dirigenti scolastici: avrebbero potuto prendere informazioni dirette.
Ma forse non hanno voluto. Bruciare le streghe è più semplice. E di maggiore effetto.
Perché il gender è una bufala
Ce lo spiega Isabella Chirico, psicopedagogista, antropologa culturale, vicepresidente di Inventum, associazione noprofit che si occupa di genitorialità, che ha organizzato a Trento un incontro dal titolo “Educare alle differenze”, promosso da Scosse, associazione nazionale che si occupa di lotta agli stereotipi.
“Tutto iniziò nel 2000, quando le Nazioni Unite lanciarono gli Obiettivi del Millennio, tra i quali si annovera la promozione della parità dei sessi e l’autonomia della donna. Ogni Paese aderente cerca di conseguire gli obiettivi sulla base della propria storia e cultura. L’Italia, firmataria del piano, decide di lavorare su prevenzione e formazione, soprattutto nelle scuole primarie e secondarie. L’obiettivo delle Nazioni Unite viene quindi da noi declinato come contrasto ai fenomeni di bullismo, violenza sulle donne, sessismo, omofobia. Sia chiaro, nessuna lobby LGBT o femminista ha deciso tutto questo, ma precisi trattati internazionali, firmati da rappresentanti dei popoli degli stati aderenti. Nessun lavoro per minare alle basi la famiglia tradizionale, ma solo ed esclusivamente la volontà di diffondere un sentimento di rispetto nei confronti delle donne e di chi vive la vita in maniera diversa da ciò che fa la maggioranza”.
Allora, a cosa si deve questo equivoco?
“Ad un certo punto è emersa la volontà di ostacolare questi obiettivi, da parte di gruppi omofobi e contrari alla parità di genere, affibbiando al progetto un’etichetta completamente discordante dal significato originale, fomentando paure e insicurezze nei confronti di queste iniziative. La confusione deriva da un rimescolamento di termini tra il significato di “genere” tradotto in inglese con “gender” e le finalità del processo proposto dalle Nazioni Unite. Tale manipolazione di concetti ha di conseguenza snaturato il concetto di “genere”, che nell’accezione delle Nazioni Unite voleva semplicemente descrivere l’insieme dei comportamenti attesi dalla società nella relazione uomo e donna; un concetto molto ampio, variabile a seconda delle culture”.
Ma se le cose stanno così, come si spiega, venendo a noi, l’opposizione all’iniziativa da parte della Giunta provinciale?
“Sicuramente, l’attuale maggioranza provinciale non brilla per conoscenza e comprensione dei concetti di genere. Si nota infatti una certa mancanza di lungimiranza nella prevenzione agli atti di violenza, sessismo, omofobia, fatto strano da parte di chi fa della sicurezza la propria bandiera: penso che alla maggioranza provinciale non sia chiaro di cosa si stia parlando”.
Salvatore Leo
Formazione per la parità di genere, dati e contesto sociale in Trentino
C’è proprio bisogno, in Trentino, di corsi sulla parità di genere? È un problema vero la violenza dell’uomo sulla donna (e raramente viceversa)? Per rilevare la dimensione del problema la Pat, attraverso l’Osservatorio sulla Violenza di Genere ha presentato una indagine statistica sulla situazione, basandosi sulle denunce e i provvedimenti adottati.
Il risultato è interessante: tra il 2011 e il 2017, e cioè da quando sono stati attivati i corsi di formazione oggi sospesi dalla Giunta Provinciale, il numero delle denunce è cresciuto fino al 2014, per poi scendere gradualmente al 2017.
In quanto alla relazione tra vittima e presunto autore, nella stragrande maggioranza dei casi (percentuale del 60%), la violenza avviene in famiglia, o comunque tra le relazioni affettive, passate o presenti che siano.
Denunce | Percentuale | |
---|---|---|
Partner | 88 | 20% |
Ex partner | 127 | 29% |
Altro familiare | 48 | 11% |
Amici/Conoscente | 61 | 14% |
Datore lavoro/collega | 9 | 2% |
Assistito / paziente | 4 | 1% |
Nessuna relazione o non noto | 101 | 23% |
Totale | 439 | 100% |
La dott.ssa Barbara Poggio, Responsabile Scientifica del progetto di Formazione per la parità di genere ritiene “un possibile segnale che l’attività di formazione svolta in passato abbia avuto degli effetti positivi. E che comunque la sospensione della formazione possa causare una variazione di tendenza (in negativo)”
Altro effetto positivo della formazione è la maggior consapevolezza delle vittime di violenze, che quindi più facilmente ne parlano e all’occorrenza presentano denunce alle autorità.
Totale eventi che coinvolgono donne tra i 16 e i 64 anni | 584 |
Numero di donne tra i 16 e i 64 anni in Trentino al 1° gennaio 2017 | 168.688 |
Incidenza sulla popolazione femminile | 3,5 su 1000 donne |
Frequenza media mensile | 49 ogni mese |
Frequenza media giornaliera | 1,6 ogni giorno |
Con la sospensione dei corsi, al contrario, si rischia di mettere a repentaglio questi risultati, per due ragioni: mancando il contatto con l’utenza casi di violenza di difficile individuazione rimangono nascosti, e le istituzioni si privano di un importante strumento di riconoscimento e di intervento.
La seconda ragione è evidente dalla lettura dei dati: se la violenza avviene per il 60% dei casi in famiglia, demandare ad essa il ruolo di formatore dell’educazione alla parità di genere non è la soluzione migliore. Infatti sono proprio le famiglie in cui può esserci violenza che c’è più necessità di un intervento esterno.
Salvatore Leo